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lunedì 23 gennaio 2017

L'uso della testimonianza nella didattica della Shoah

Gli  articoli 1 e 2 della legge n. 211 del 20 luglio 2000 definiscono così le finalità e le celebrazioni del Giorno della Memoria: “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, ‘Giorno della Memoria’, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.

Clicca qui  : Per ricordare l'orrore della Shoah


Miklós Radnóti




“Non uccidere”, come appare nei documenti dei sopravvissuti, è  il comandamento implicito in tutte le testimonianze.


Dal ghetto di Vilna 
Abraham Sutzkever (1913) 

"Le stesse ceneri ci copriranno tutti:
il tulipano – candela tremolante nel vento,
la rondine nel suo volo, malato per troppe nubi,
il bambino, che nell’eternità ha lanciato la sua palla –

solo uno sopravvivrà, un poeta –
uno Shakespeare impazzito, pronto a cantare un canto
composto di ingegno e forza:
– Ariel, spirito mio, fa’ entrare il nuovo destino
e rigurgita le città morte!"

. Nella poesia "Come?", scritta nel ghetto di Vilna, Sutzkever immagina il futuro di libertà come un tempo della "trivellante" memoria, cui al poeta non è data possibilità di sottrarsi, e per sopravvivere al quale occorre farsi una ragione, bisogna trovare una chiave per interpretare quello stesso passato nel quale il futuro è irrevocabilmente radicato:

"Come e con cosa riempirai
il tuo calice nel giorno della liberazione?
Nella tua gioia, sei pronto a sentire
il buio grido del tuo passato
dove i teschi da giorni si congelano
in un abisso senza fondo?

Cercherai una chiave adatta
alle serrature inceppate.
Come fosse pane, azzannerai le strade
e penserai: meglio il passato.
E il tempo ti trivellerà con calma
come un grillo prigioniero in un pugno.

E la tua memoria sarà come
una vecchia città sepolta.

Il tuo sguardo eterno striscerà
come una talpa, come una talpa –"
Ghetto di Vilna, 14 febbraio 1943

La testimonianza di Primo Levi: Se questo è un uomo (1958)

«Soccombere è la cosa più semplice: basta eseguire tutti gli ordini che si ricevono, non mangiare che la razione, attenersi alla disciplina del lavoro e del campo. L’esperienza ha dimostrato che solo eccezionalmente si può in questo modo durare più di tre mesi. Tutti i mussulmani che vanno in gas hanno la stessa storia, per meglio dire, non hanno storia; hanno seguito il pendio fino al fondo, naturalmente, come i ruscelli che vanno al mare. Entrati in campo, per loro essenziale incapacità, o per sventura, o per un qualsiasi banale incidente, sono stati sopraffatti prima di aver potuto adeguarsi; sono battuti sul tempo, non cominciano a imparare il tedesco e a discernere qualcosa nell’infernale groviglio di leggi e di divieti, che quando il loro corpo è già in sfacelo, e nulla li potrebbe più salvare dalla selezione o dalla morte per deperimento. La loro vita è breve ma il loro numero è sterminato. Sono loro, i Muselmanner, i sommersi, il nerbo del campo; loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. 












La voce della vittima può essere  una testimonianza di  un sopravvissuto, una testimonianza audiovisiva, una testimonianza scritta sotto forma di diario o di memorie.
Primo Levi, in alcune pagine  memorabili di I sommersi e i salvati 

«Lo ripeto non siamo noi i superstiti i testimoni veri. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro i musulmani i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola noi l’eccezione… Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi appunto; ma è soltanto un discorso “per conto di terzi”, il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la propria morte»



Poesia di Eva Picková
La paura
Di nuovo l’orrore ha colpito il ghetto,
un male crudele che ne scaccia ogni altro.
La morte, demone folle, brandisce una gelida falce
che decapita intorno le sue vittime.
I cuori dei padri battono oggi di paura
e le madri nascondono il viso nel grembo.
La vipera del tifo strangola i bambini
e preleva le sue decime dal branco.
Oggi il mio sangue pulsa ancora,
ma i miei compagni mi muoiono accanto.
Piuttosto di vederli morire
vorrei io stesso trovare la morte.
Ma no, mio Dio, noi vogliamo vivere!
Non vogliamo vuoti nelle nostre file.
Il mondo è nostro e noi lo vogliamo migliore.
Vogliamo fare qualcosa. E’ vietato morire!
Eva Picková nata nel 1931, aveva dodici quando è morta nel 1943.

Nel 1967 Abba Kovner pubblica una silloge di 46 liriche intitolata La mia sorellina, nella quale riecheggia il dramma della vita del ghetto e l’irrimarginabile ferita della Shoah:

"Sono arrivati fino alle mura.
Nella settima notte con la luce dell’alba
dall’alto delle mura sentirono quelli che affondavano nella neve,
ma senza vedere le facce di chi marciava
nel vento bianco. [...]
Gli occhi di mia sorella cercano sulle mura del convento
una speranza rossa. Nelle mani delle monache trema un cero.

Nove Sante Sorelle guardano mia sorella
come si guarda una cenere che parla. [...]
Non ho mai visto una città stesa supina
come un cavallo nella pozza del suo sangue
sbatte folle le zampe, e non si alza.

Suonano campane.
Città.
Città. Come si piange una città
i cui abitanti sono morti e i suoi morti vivono nel cuore?
Campane. [...]
Sono finite le candele nel Ghetto, è finito l’ossigeno
e nella tana della sposa
mia madre ha acceso la sua anima
per tutti i giorni.

Nostra madre ha preso il lutto per una figlia
non venuta al mondo. [...] – tu che hai visto tutto,
tu che ci hai visti
madre!

Perché non porti il lutto per noi
ma lo porti per chi
non è entrata nel mondo?"

(traduzione di Gaio Sciloni)

lunedì 16 gennaio 2017

Scrivere a Maria Occhipinti : CONCORSO PER STUDENTI SICILIANI

SCRITTURA EPISTOLARE. CONCORSO PER STUDENTI SICILIANI.



Nata a Ragusa nel 1921, è stata scrittrice e femminista.

Il ‘900 è il secolo di una combattiva e instancabile signora iblea, la donna di lettere  Maria Occhipinti (Ragusa 1921- Roma 1996) rivoluzionaria, femminista e scrittrice, Maria incarnò il pensiero di molte madri e mogli che, afflitte dalle perdite dei figli e dei mariti uccisi durante la seconda guerra mondiale, si rifiutarono di mandare i propri cari a morire sul fronte istituendo il movimento antimilitarista “Non si parte!” di Ragusa, Maria in particolare a seguito dei rastrellamenti del ‘45 non esitò a stendersi in mezzo alla strada incinta di cinque mesi per bloccare il mezzo su cui venivano trasportati alcuni suoi concittadini, tale gesto provocò subito un’insurrezione popolare che durò per 4 giorni. Maria venne arrestata e condannata al confino, scontata la pena cominciò a viaggiare per tutto il mondo (Milano, Svizzera, Francia, Marocco, Canada, Stati Uniti) per stabilirsi definitivamente a Roma e morirvi. Con la sua autobiografia “Una donna di Ragusa” vinse nel 1976 il prestigioso Premio Brancati. 


Il bando qui

http://edizioniarianna.it/premio-di-scrittura-epistolare-studenti-siciliani/





http://sellerio.it/it/catalogo/Una-Donna-Ragusa/Occhipinti/407



La mattina del 4 gennaio del 1945 tra Corso Vittorio Veneto e la Via IV Novembre, Maria, incinta di cinque mesi, si stende a terra davanti un camion carico di giovani rastrellati nel quartiere. I soldati cominciano a sparare alla folla, feriscono un ragazzo e ammazzano un sacrestano che si era avvicinato per fare da paciere. Così Maria descrive la rivolta:
“La mattina del 4 gennaio verso le 10, mentre stavo lavando mi sentii chiamare dalle donnette del mio quartiere che gridavano: Venite, venite sullo stradone, comare, voi che sapete parlare, voi che vi fate sentire e avete coraggio, venite a vedere che gran camion che c’è e sta portando i nostri figli. Mio marito era a lavorare, aveva anche lui la cartolina in tasca, ma io ero decisa, il padre di mia figlia non lo prendevano né vivo né morto. Corsi sullo stradone. Era una giornata serena dopo una grande pioggia e le donne fuori dalla porta, al sole, facevano la calza. Il camion carico di giovani veniva avanti come un carro funebre. Fallito il rastrellamento notturno perché i giovani scappavano in campagna e andavano a dormire in casa dei vicini dove c’erano solo donne (e tutte si prestavano in quell’occasione senza i soliti pregiudizi, pur di salvare un figlio di mamma), le autorità avevano deciso di fare una retata, cominciando da in cima allo stradone. Prendevano tutti i giovani che trovavano nelle botteghe dei barbieri, dei calzolai, dei mastricarretta di quel quartiere popolare che chiamavano “la Russia”. Il camion carico di giovani veniva avanti come un carro funebre. Fallito il rastrellamento notturno perché i giovani scappavano in campagna e andavano a dormire in casa dei vicini dove c’erano solo donne (e tutte si prestavano in quell’occasione senza i soliti pregiudizi, pur di salvare un figlio di mamma), le autorità avevano deciso di fare una retata, cominciando da in cima allo stradone. Prendevano tutti i giovani che trovavano nelle botteghe dei barbieri, dei calzolai, dei mastricarretta di quel quartiere popolare che chiamavano “la Russia”. Davanti al camion venivano le autorità di polizia, tra gli altri perfino il vicequestore di Catania, mi dissero.” (Una donna di Ragusa, Sellerio Editore)


Dopo giorni di scontri violenti, che si allargarono a macchia d’olio in tutta la provincia e anche oltre, la rivolta fu repressa.  Maria Occhipinti fu arrestata.

Il gesto di Maria non fu dettato da un impulso momentaneo ma fu frutto di un sentimento antimilitarista da tempo radicato in lei. Maria, infatti, aveva provato sulla propria pelle quanto male facesse la guerra e di quanta fame e di quanto orrore era causa. Sapeva già di ingiustizie e di iniquità. Nel 1940 ingenuamente, aveva scritto una lettera a Mussolini “uomo giusto, grande e umano”, informandolo che un ricco commerciante era stato esonerato dal servizio di leva, mentre il marito e gli altri continuavano a combattere. “Perché i ricchi possono corrompere i generali e non vanno a combattere come i poveri?” E’ schietta e sincera al punto da sembrare a molti un’incosciente. Si rende conto dell’importanza dell’istruzione e della cultura, capisce che la libertà delle donne passa attraverso esse, una libertà non di rivalsa nei confronti degli uomini, ma di maggiore consapevolezza della condizione femminile e  dell’orrore della guerra portata avanti dagli uomini. 
A vent’anni va nell’istituto delle orfanelle  del Sacro Cuore tenuto dalle suore e frequenta la quarta classe elementare, studia con passione e avrebbe voluto studiare “sempre geografia, niente storia, niente guerre, stragi e miserie”. Tiene discorsi di pace e di giustizia sociale alle vicine di casa, definisce la guerra illogica e senza regole. 
Nel 1941 il marito è in guerra a Cassino, lei lo raggiunge. Tocca con mano e vede con i propri occhi in quali terribili e miserevoli condizioni vivono i soldati e quanta è insopportabile l’autorità  e la severità dei superiori,  così si rivolge al colonnello per denunciare i fatti. Una donna così strutturata non poteva non stendersi  a terra davanti ai camion militari. Maria dopo l’arresto viene condotta ad Ustica dove partorisce nella miseria assoluta una  bambina. Successivamente, è trasferita nel carcere delle Benedettine a Palermo.
Torna a Ragusa dopo un paio di anni ma viene accolta freddamente dai ragusani i quali non capiscono questa donna troppo diversa da loro. E’ inconcepibile per loro una donna che ha voglia di studiare, una donna che si ribella alla guerra, alle ingiustizie, ai soprusi, che parla, grida, agisce.  E non solo, anche il marito la disprezza, è un ignorante, rozzo, incolto, e si è legato ad un’altra donna.  Così Maria va via da  Ragusa e si trasferisce  al nord, vive in diverse città fino a quando approda in Svizzera dove scrive, in un linguaggio realista, verista, in un misto fra italiano e ragusano,  la sua biografia: “Una donna di Ragusa” che viene pubblicata nel 1957 da Landi. Il libro però passa inosservato fino a quando, nel 1976,  fu pubblicato dalla Feltrinelli, destando parecchio interesse tant’è che la Occhipinti non solo fu annoverata fra le migliori scrittrici del tempo ma vinse nello stesso anno il premio Brancati-Zafferana.
Maria in seguito si trasferisce all’estero e poi si stabilisce definitivamente a Roma dove scrive alcune novelle, che in seguito andranno a far parte della raccolta “Il carrubo ed altri racconti” nelle quali la Occhipinti racconta le arretratezze della vita che si svolge in una Sicilia contadina. Legata al partito  comunista arriva alla rottura definitiva quando quest’ultimo condanna i moti ragusani accusando i rivoltosi di complicità con i fascisti e con i separatisti. Maria si avvicina così agli anarchici e scrive una lettera Feliciano Rossito nella quale afferma che i moti erano antimonarchici e antimilitaristi, che erano nati spontaneamente  dal malessere profondo della gente stanca della guerra  e della fame. Lei non si schiera dietro una bandiera o un’ideologia, è una donna libera, una libera  pensatrice, “fuori di ogni setta politica”. Maria Occhipinti muore a Roma nel 1996. Il suo libro “Una donna di Ragusa” è edito da Sellerio.  Sempre da  Sellerio è stato pubblicato “Una donna libera” dove Maria racconta la sua partenza da Ragusa dopo il suo rilascio e il suo peregrinare all’estero, in Svizzera, in Francia, in Inghilterra, in America.






Maria Occhipinti (Ragusa 1921 - Roma 1996) 

Maria Occhipinti prende coscienza dei grandi interrogativi esistenziali e sociali, dell’inferiorità della condizione femminile, in un itinerario intellettuale, politico e letterario che s’innesta negli anni della seconda guerra mondiale. Verso la fine del 1944 giunse la nuova chiamata alle armi. In risposta, Ragusa, come molti altri centri siciliani, esplose in un’insurrezione popolare e istituì il comitato di rivolta Non si parte. In seguito, la storiografia ufficiale tacciò quest’insurrezione quale evento di rigurgito fascista e tentativo di separatismo. Un velo d’oblio calò sui fatti fino alla pubblicazione del libro Una donna di Ragusa della Occhipinti. Nata nel 1921, fu protagonista ed emblema indiscusso di quei moti popolari. La mattina del 4 gennaio del 1945, a Ragusa, tra Corso Vittorio Veneto e la Via 4 Novembre, Maria, all’età di ventitré anni ed incinta di cinque mesi, si stese a terra, davanti un camion militare carico di giovani rastrellati da un quartiere popolare di Ragusa, con l’intento di facilitarne la fuga. Scoppiò il tumulto. I soldati cominciarono a sparare. Dopo giorni di violenti scontri l’insurrezione fu repressa spietatamente con l’arrivo della Divisione Sabauda. L’ordine venne stabilito l’otto gennaio e più di un centinaio di comunisti furono arrestati. Maria fu l’unica donna condannata al confino ed al carcere. Ad Ustica diede alla luce, in povertà ed estrema miseria. Successivamente, fu trasferita nel carcere delle Benedettine a Palermo. Quando ritorna a Ragusa ha venticinque anni, una bambina che fa fatica a riconoscerla ed un marito che si era legato ad un’altra donna. La famiglia ed i cittadini l’accolgono con ostilità e freddezza, considerandola quasi una donna indegna perché coinvolta nella rivolta e lontana dagli usi domestici e sociali delle comuni donne siciliane. Disprezzata da tutti, lascia con la figlia la città; la sua vita si svolge tra Napoli, Ravenna, San Remo, Roma, Milano. In seguito si stabilisce in Svizzera, e lì scrive la sua biografia, un momento di catarsi e di analisi di un passato pieno d’interrogativi ed incomprensioni. Una donna di Ragusa ha valore non solo storico ma anche sociologico e letterario, con uno stile scarno ed un linguaggio verghiano, misto di dialetto ragusano ed italiano corrente. Maria s’interroga sulla primitiva condizione femminile della Sicilia, sull’oscurantismo religioso, sulla guerra, fonte di ogni male, e sull’umanità circondata da ingiustizie. Un libro che s’inquadra nel filone ultimo del neorealismo, ma che all’inizio passò inosservato. Fu in seguito alla pubblicazione presso la Feltrinelli, nel 1976, con un lungo saggio in prefazione di Enzo Forcella, che l’opera cominciò a suscitare interesse, e nel dicembre dello stesso anno vinse il premio Brancati-Zafferana. La Occhipinti fu annoverata tra i grandi nomi della letteratura femminile ed il suo libro cominciò ad essere utilizzato come testo di studio presso numerose scuole. Nacquero le prime traduzioni e la RAI lanciò l’idea di una trasposizione cinematografica. Nel frattempo si trasferisce in diversi stati: Marocco, Francia, Canada, per poi approdare a New York dove lavora come infermiera. Nel 1973 torna a Roma e con la figlia si stabilisce definitivamente nella capitale. Continua la sua attività rivoluzionaria con degli articoli a carattere sociale e politico. Denuncia le ingiuste condizioni delle domestiche, che lavorano al servizio dei padroni borghesi, costrette spesso a subire abusi sessuali; evidenzia il grave problema dell’espropriazione dei terreni, a prezzi irrisori, siti alla periferia di Ragusa. A Roma torna anche il suo fervore letterario. Compone delle novelle che poi entreranno a far parte della raccolta Il carrubo ed altri racconti, pubblicata postuma dalla Sellerio. Le novelle, brevi spaccati di vite quotidiane, si snodano nella profondità della terra siciliana, nella società contadina, fatta di maligni pettegolezzi, di credenze popolari, di matrimoni mercanteggiati, di arretratezza ed ostracismo. Politicamente, dopo un periodo di forte legame col Partito Comunista, arriva una rottura definitiva. Il PCI, infatti, aveva condannato i moti ragusani di complicità con i fascisti e con i separatisti. Maria, vicina ormai agli anarchici, scrive una lettera di risposta a Feliciano Rossito, sostenendo come il moto era anzitutto una sollevazione antimonarchica ed antimilitarista, che prendeva origine dal profondo malessere della popolazione, spossata dalla guerra e sfiduciata dal governo. Maria Occhipinti, dall’animo forse troppo schietto e sincero, dai giudizi spesso taglienti verso qualsiasi forma d’ingiustizia, muore a Roma il 20 agosto del 1996. Oggi a Ragusa c’è chi crede sia stata ingenua, bizzarra nel suo folle gesto, chi mette addirittura in discussione la sincerità del suo racconto, perché, dice la Cotensin, ha disturbato e disturba sempre con le sue scelte di vita, le sue scelte politiche.