Siamo su Dienneti

venerdì 17 novembre 2017

Jolanda Insana, voce poetica italiana, aulica e dialettale, sempre fuori dal coro




https://poetarumsilva.com/2017/11/16/maria-allo-jolanda-insana/
https://paoloottavianisweblog.wordpress.com/2017/11/16/maria-allo-su-jolanda-insana/
http://www.900letterario.it/poesia/jolanda-insana-voce-poetica-epigrammatica/

La vita e la morte allato vanno”: la poesia di Jolanda Insana come infinita Sciarra amara

L’anno 1977 segna l’esordio tardivo nella poesia della quarantenne Jolanda Insana, quando un gruppo di testi di Sciarra amara è presentato in un quaderno collettivo della casa editrice Guanda, diretta da Giovanni Raboni, poeta e militante nella critica in primis letteraria, ma anche teatrale e cinematografica che, sbalordito alle schioppettate linguistiche della “Pupara”, così scrive: «[…] dietro o al di là della beffa, dietro o al di là dell’acuto, atroce sarcasmo, è in ogni caso, e senza scherzi, questione di vita o di morte: ed è questo, certo, a far circolare nella poesia della Insana, nel suo personalissimo impasto di sostenutezza aulica e gesticolante allegria dialettale, nel suo epigrammismo che, per naturale paradosso tende a farsi voce ininterrotta, declamazione, poema, una vena di minacciosa, rabbrividente cupezza.» Jolanda Insana è voce poetica italiana fuori dal coro. Sciarra è termine siciliano che viene dall’arabo šarra e insieme letterario che significa rissa, «conflictus tra la vita e la morte».
 “io infuoco la posta / in questo gioco che mi/ strazia / e punto forte sulla carta”
Impasto verbale di lingua italiana, dunque, e dialetto siciliano, a tratti duro, per scardinare il conformismo dell'Italia degli anni Settanta e la mancanza di senso. Insana dice che la parola è voce della carne e la poesia è medicina carnale, così dai dettagli di un particolare stonato, “picciùsu”, cerca di far sprigionare un senso che vada al di là della superficie, una grande occasione di vedere il male e di non arrenderci a esso. Per questo Raboni, ha potuto parlare della «concretezza visionaria» di una voce che, prendendo le distanze dalla massa, riesce a cogliere le storture dell’esistenza e denunciarle. Da questo punto di vista il plurilinguismo di Jolanda Insana e i testi delle sue raccolte poetiche, caratterizzati da un vero e proprio “bombardamento” lessicale con termini letterari, insieme a voci dialettali e neologismi, hanno una cifra inconfondibile che si riconosce non solo nella concretezza ma anche nella continuità con la tradizione, che la spinge in direzione della nostra povera, martoriata, meravigliosa lingua italiana. La ricerca poetica di Jolanda Insana è lazzariata dall’esperienza nella sua infanzia della seconda guerra mondiale, dai bombardamenti delle forze alleate e dalla miseria.
Del resto caratteristica dell’autrice è la capacità di far risorgere; in questa forza risiede la specificità della letteratura, per noi, esperienze lontane e concluse, così nel componimento Il bombardamento: «non c’è cautela che basti contro la paura/ a tre anni quando si apre la prima voragine/ e sotto i bombardamenti si perde terra e acqua/ temo però che quello non fu l’ultimo avviso/ mandato dal padrone// nessuno conoscerà che male fu/ avere offeso l’udito.» Poesia sperimentale, dunque, impegnata nei contenuti e non, di quelle che nelle strutture espressive e nella “lingua ‘strana’, eppure così familiare ai siciliani, sa incidere sulla realtà concreta, attraverso un instancabile labor limae nel quale lo studio dei classici latini e greci ha svolto un ruolo di primaria importanza. Ecco la novità: il suo linguaggio poetico deve molto al pensiero greco, ellenistico e al romanesimo, al costante e vario vaglio filologico su testi di Euripide, Alceo, Anacreonte, Ipponatte, Callimaco, Plauto, Lucrezio, Marziale fino ad Andrea Cappellano. Così la sua ricerca, lungi dal costituire il momento culminante di un’unica vittoriosa tradizione, rappresenta l’aperto crocevia da cui non possono non transitare i filoni più avanzati della ricerca poetica del nostro secolo. Cosa ci dice tutto questo? Che è cambiato radicalmente il nostro modo di dare significato alla vita rispetto al passato, non c’è un senso già dato e comune per tutti, il significato della vita va invece costruito, da ciascuno in modo diverso. Per lei era importante la parola a tratti aggressiva sulla soglia dell’ambiguità scorticata da un continuo allarme e frana del senso. “Sono fortunato/ se riesco a muovere la mandibola in avanti”, si confessa la Voce mentre prova se stessa in ogni ampiezza e falsetto, incrociando la crescente fragilità con la malattia da cui è avvolta ogni altra apparenza fuori da sé, natura o nazione o mondo. A cominciare dai “vecchi padri/ incarogniti e ubriachi di viagra”, o dalle “fragole giganti/ alberi metà pino e metà abete nati dopo Cernobyl”. È chiaro che simili sperimentazioni come musiche strimpellate o termini danteschi, cuticagna o incantamento, o ancora colpanza, fallenza, oblianza, perdenzia, assieme alla creazione di verbi parasintetici a prefisso in-, in-, ancora una volta di ispirazione dantesca (impoesiarsi, inserpentarsi), disorientano il lettore perché rendono problematico qualsiasi tentativo di traduzione, ma il linguaggio di Jolanda Insana contaminato da un dialetto a tratti duro dirompe e richiama l’espressionismo dantesco tra  antinomie, giochi di parole, balbettii e borbottii, onomatopee, deformazioni verbali che dolorosamente e provocatoriamente ruggiscono come fendenti fonici dentro le viscere della lingua che sconvolge e non si piega. Eppure i ricordi sono compresi solo attraverso simili “resurrezioni”, emozioni materiche che ne La tagliola dell’amore sostituiscono la spietatezza dello sguardo a una certa elegiaca apertura che indugia nella tensione quasi biologica del sentimento. “Oggi posso fare qualcosa io che sono vinta/ e non voglio rivincite e sacrifici”.
Visionaria della ribellione e dello sdegno, voce selvaggia in grado di interpretare la lotta umana e di ammonire chi opprime e soffoca ogni moto di carità e solidarietà, Jolanda fu eretica e mistica, voce coerente nella dicotomia tra corpo e spirito “non lo amo ma non è una ragione per distruggerlo/ questo mio corpo incoerente mai sazio né beato/ e dunque lo allevo e lo tutelo come madre/ e lo rattoppo e strappo alle grinfie della figlia”.
 Un “impasto personalissimo di sostenutezza aulica e gesticolante allegria dialettale” in cui la Sicilia affiora costantemente come il biancomangiare e nessuno come Jolanda Insana ha saputo dare voce alla saggezza amara della Sicilia attraverso l’evocazione della madre ne La tagliola del disamore (2005).
Nata nel 1937, originaria di Monforte, laureata in Lettere classiche a Messina con una tesi sull’opera in frammenti di Erinna (una poetessa greca amica di Saffo), trasferitasi nel 1968 a Roma, l’Insana è stata, oltre che studiosa, anche insegnante che odiava adulazione e servilismo con una profondità fortemente sapienziale, priva di mediazioni, che non sarebbe dispiaciuta a Rimbaud o a Campana. Certo, gli apprezzamenti non le sono mancati, infatti nel 2002 per La Stortura le è stato anche assegnato il premio Viareggio. Cospicua dunque la produzione di Jolanda Insana, dagli esordi di Sciarra amara (1977) e Fendenti fonici (1982) si arriva a La stortura (2002), libro fondamentale per l’espressione poetica femminile, oggi un universo rispetto al quale la critica fatica, per molti aspetti, a posizionarsi. È un dato obiettivo, per esempio, che il numero delle poetesse sia di gran lunga inferiore a quello degli uomini, fatto che si spiega facilmente con la condizione di esclusione nei confronti della cultura a cui le donne siano state condannate per secoli. Infatti mai come in quest’opera si è posto l’accento sull’immensa difficoltà incontrata dalla parola nel pronunciare: «non c’è altra parola che la semplice parola/ ma s’infinse di non sentire/ e mi lasciò con le braccia aperte/ credendosi il padrone che s’abbuffa di libertà/ e sputa servi incatenati/ sono qui e non sono ammutolita e sciacquo il tempo/ per acquistare tempo/ commisurando le proposte sgradevoli/ all’incanto sottile delle sete» (p. 361); e ancora: «non ho accesso alla parola/ e quando con fatica dico fame/ faccio vento e non posso masticare// è un’ossessione la bocca/ poi che si mangia i denti e fa sputazza» (p. 418). La terra, e cioè l’umanità, ha bisogno di individuare valori solidi che diano un fondamento, anche di tipo religioso, alla vita, agli uomini e al loro bisogno di significato. Ma dal cielo non viene nessuna parola che soddisfi tale bisogno. L’uomo resta nella solitudine tragica della sua condizione, caratterizzata, nel contempo, dal bisogno di significati certi e dall’impossibilità di una risposta a questa esigenza. Questo bisogno di dire la realtà e questo senso di esilio si avvicinano in una ricerca che non ammette consolazioni, come ricorda la stessa Jolanda Insana:
«Forse è vero che quanto più si vive la mancanza di qualcosa tanto più si diventa onnivori, quanto più si sa tanto più si sa di non sapere, quanto più si sta in esilio si brama di un rimpatrio, e dunque quanto più si avverte l'inadeguatezza dei linguaggi tanto più ossessiva si fa la ricerca di tutti i possibili linguaggi per dare voce al pensiero, all'emozione, alla verità della vita, alla sua parte oscura, alla sua parte luminosa.»
Messina negli ultimi anni l’aveva conosciuta. Ma “dominnidìu su Jolanda non si è scritto ancora troppo per la verità.
Maria Allo

Poesie tratte “Jolanda Insana – Tutte le poesie (1977-2006)”

Camoliato madapolàm

1
la vita e la morte allato vano
transeunti per lo stesso porticato
comincia dolcechiaro finisce amaroscuro

2
non toccare la berretta al tignoso
non tutto è fatto per parere
bello
se sputi all’aria
è meglio che tu cammini
con l’ombrello

3
fuggire è vergogna
ma anche salvamento
vita con vita non si mangia
guai al minchione che non ha
potere
potendo il poco basta
carne cotta e cruda
l’assai soverchia
e troppe grazie a santantònio

4
quanto fiato perde
chi andando per la vita
chiama la morte e dice
accuccia-accuccia

5
i piedi reggono esattamente
quanto ioho
lèvati
non mi fare il solletico

6
ma chi comanda qua
mannàggia
non sono padrona
di niente
maco gli occhi per piangere

7
com’è camoliato
il madapolàm della vita
lo sa la falsabrigante
e nulla può naftalina

8
vita bella e affatturata
non avea catene al collo
né debito di coscienza
dopo la sua porcapedata
non sa più spendersi
con chi le pare e piace

9
meschina vita
si difende a mozziconi
chi muore riempie la sua fossa

per quanta vita sali
tanta ne discendi

Prof.ssa Maria Allo


Fonti

1.         Jolanda Insana, Tutte le poesie 1977-2006, Garzanti, Milano 2007.
2.         Carmen Micalizzi, “L’italiano regionale della Sicilia” Tesi di Laurea - A.A. 2002-2003
3.         Maria Antonietta Grignani, Il martòrio e altro, in Dario Tomasello, Nessuno torna alla sua dimora, Messina, Sicania, 2009, pp. 33-53.
4.         Ambra Zorat, La poesia femminile italiana dagli anni Settanta a oggi. Percorsi di analisi testuale,
            Tesi      di dottorato, Université Paris IV Sorbonne – Università degli Studi di Trieste, 2009.
5.         Jolanda Insana, Turbativa d'incanto, Garzanti Libri. Collana: Collezione di poesia, Milano 2012
6.         Itinerari siciliani  a cura della Biblioteca Regionale Universitaria di Messina  
7.         La letteratura e noi di Romano Luperini ed. Palumbo , Dal Novecento a oggi  “La voce delle


             donne”

venerdì 15 settembre 2017

‘Fuochi’, o degli specchi di Marguerite Yourcenar: una felice fusione tra moderno e miti classici




SU  '900 LETTERARIO


Prof.ssa Maria Allo 

«Spero che questo libro non venga mai letto» è l’incipit di uno dei testi più intensi e famosi di Marguerite Yourcenar, Feux- Fuochi. Un libro che l’autrice francese non avrebbe mai voluto far leggere per i contenuti personali, una vera e proprio ricerca dell’anima umana messa al rogo da un amore non ricambiato, una crisi passionale della trentaduenne Marguerite, innamorata perdutamente del suo editore, André Fraigneau, che, a sua volta è innamorato di altri uomini. Ed è così che l’autrice inizia a comporre collages come in uno stato ditrance, e sotto la spinta di una visione interiore attinge al mito, approccio all’assoluto.
Infatti al centro di Fuochi, una raccolta di prose liriche scritte nel 1935, si susseguono una serie di ritratti interiori, come riflesso di una violenta esperienza d’amore da Fedra a Saffo, riproposti alla maniera del grande Racine . E’ un libro indelebile e leggerlo significa attraversare e farsi attraversare dall’amore: “Amare a occhi chiusi significa amare come un cieco. Amare a occhi aperti forse significa amare come un folle: accettare a fondo perduto. Io ti amo come una folle”.
Viene ripresa dunque la storia di Fedra, figlia di Pasifae e Minosse, moglie di Teseo re e fondatore di Atene, che presa da amore travolgente per il figliastro, perde sé e lui. In questa tragedia Fedra rivelava senza ritegno il suo amore al figliastro il quale inorridito si copriva il capo.“Dinanzi alla freddezza d’Ippolito imita il sole quando urta un cristallo: si trasforma in mostro. Non abita più il suo corpo se non come il suo stesso inferno….”

Yourcenar e Fedra, o della disperazione

L’amore incestuoso e non corrisposto, impossibile da realizzare condurrà Fedra inevitabilmente a un dolore atroce che consuma l’anima fino a culminare nella morte. Nella tragedia raciniana il dolore di Fedra diviene fragilità nevrotica, del tutto incapace di emergere dal disordine della regressione. Racine critica Seneca perché troppo severo nel giudicare così empia la colpa di Fedra: “elle n’est pas tout coupable”. Anche la Yourcenar sosterrà che “come ogni vittima, è stato lui il suo boia”. Fedra non ha che da accusare se stessa per aver fabbricato tutto ciò che ama di Ippolito e la stessa odiata Aricia. “È per causa di lui che lei è morta; è per causa di che lui non ha vissuto. Lui non le deve che la morte; lei gli deve i soprassalti di un’inestinguibile agonia”. Nella prefazione della raccolta l’autrice stessa precisa che, da un lato, ha voluto esprimere l’ardore delle sue emozioni, dall’altro, ha avuto l’occhio attento alla realtà contemporanea e attraverso quello specchio deformante ha letto le antiche storie. Così in Saffo viene ripreso e assunto nella contemporaneità il mondo della poetessa, la cui descrizione dei sintomi della passione amorosa ebbe forte influenza per più di un millennio: “Ecco che Amore di nuovo/ mi dà tormento;/ Amore che scioglie le membra,/ Amore dolce e amaro,/ fiera sottile e invincibile…(”Trad. di M. Valgimigli)
Ecco che nell’invenzione letteraria della Yourcenar, Saffo assume le sembianze di un’artista del Circo, “un’acrobata alle prese con le bestie del circo che se la divorano con gli occhi…”. Antico e moderno si fondono quindi, si conservano e ci accompagnano anche nello spazio, come una via in cui si sono dischiuse tutte le operazioni successive. Appunto per questo “se l’umanità è destinata a sopravvivere, la civiltà di domani, come lo fu quella di ieri, sarà evidentemente costruita nel solco tracciato in gran parte dalla Grecia”.
Clitennestra attinge alla tragedia greca Orestea. In Aulide era stato imposto ad Agamennone il tremendo dovere di sacrificare la figlia Ifigenia per placare la collera di Artemide e calmare i venti contrari. Agamennone fa la sua scelta , sacrifica la figlia e permette alla sua spedizione di partire. Nella moglie però fa divampare la fiamma dell’odio che spinge la donna nelle braccia di Egisto e la induce a uccidere il marito. La Clitennestra della Yourcenar si ritrova a dover spiegare le motivazioni del suo atto in un tribunale dei nostri giorni. Una serva e un padrone si sposano. Il padrone deve conquistare il mondo e va in guerra. La serva aspetta il suo ritorno. Il padrone ritorna. La serva uccide il suo padrone. L’uomo ritorna.
Fuochi dunque è traversamento dell’Ade che non esclude la verticalità nella visione creatrice con ineludibile tensione verso il nuovo. L’autrice per compensare un vuoto troppo doloroso e per lenire la ferita dell’abbandono ha dato corpo ai personaggi della leggenda greca elevati ad archetipi eterni con l’obiettivo di una ricomposizione poetica nel Tutto, dunque frammentazione e integrazione si configurano come momenti di ascesa.

Maria Maddalena o della salvezza

Maria Maddalena o delle salvezza è la versione della Yourcenar di Maria di Magdala , una donna che non riesce a concepire al di là della carne e del sangue “Ho dovuto amarti per capire che la peggiore e la più mediocre delle persone umane è degna di ispirare lassù l’eterno sacrificio di Dio…Dio non mi ha salvata né dalla morte, né dai mali, né dal delitto, poiché è grazie ad essi che ci si mette in salvo. Mi ha salvata dalla felicità”.
Come si legge nei Dialoghi con Leucò di Pavese,“[…] Siamo convinti che il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo, un vivaio di simboli […] La poesia non è un senso ma uno stato, non un capire ma un essere”. Nei dialoghetti gli uomini vorrebbero le qualità divine; gli dei le umane. Non conta la molteplicità degli dei – è un colloquio tra il divino e l’ umano”. Dunque la funzione del mito è quella di rafforzare la tradizione e di darle maggiore valore e prestigio connettendola alla più alta, migliore e più soprannaturale realtà degli eventi iniziali come dice Bromslaw Malinowski.
In Fuochi i racconti tratti dalla leggenda e dalla storia dunque sono destinati a offrire un sostegno alla giovane donna, innamorata di un uomo che non è attratto dal suo corpo, quel corpo vivo e vero senza più trascendenza. Ed è per questo che l’anima di Marguerite che, solo nell’amore può sussistere, scrutandosi davanti allo specchio, passa dalla condizione di colei che scruta per cercare la propria immagine vera , i suoi confini e la sua storia a scrutare e tracciare storie che trascendono la sua personale e divenire un paradigma conoscitivo imprevedibile e complesso. La Yourcenar rielabora così e tesse monologhi preziosissimi della classicità , confessioni di donne che emergono dall’inconscio e diventano visioni e sono queste donne che attraversandoci con le loro forme personalizzate ci offrono la possibilità di comprendere le nostre pulsioni. Una scrittura che, attraversando il tempo, diviene fuoco dell’assenza e, nel contempo, slancio a dimenticare e a non sperare, anche se dalle sensazioni ancestrali riemergono ricordi mai sopiti che pesano come macigni con la consapevolezza di una sistematica e ineluttabile sconfitta. La poesia recupera la configurazione mitologica rimasta celata nel corso del tempo. Anche nei Dialoghi con Leucò, opera pubblicata dodici anni dopo, in tutt’altro contesto letterario, Pavese ha intrapreso la strada del mondo classico per proiettarvi i conflitti eterni dell’uomo e nel periodo in cui vennero scritti i Dialoghi. Pavese era profondamente innamorato di Bianca Garufi, con cui scrisse a quattro mani il romanzo Fuoco grande.
Alternati alle prose, in Fuochi ci sono riflessioni sulle diverse forme della passione: uno sfogo lirico che aggiunge alla raccolta solo qualche rimando autobiografico: “Cassandra urlava sulle mura, in preda all’orribile travaglio di far nascere l’avvenire”.
Ogni personaggio bruciando nel proprio tormento la propria missione: disperazione, menzogna, destino, scelta, segreto, salvezza, vertigine, crimine, suicidio. Un filo sottile accomuna chi ha sofferto ma ha anche compreso l’essenziale accettando con umiltà il limite e soprattutto l’ombra che ci portiamo dentro..
Fuochi è da leggere e da rileggere, un porto sicuro a cui tornare. Impossibile non farsi coinvolgere dalla narrazione scorrevole e diretta, una narrazione temporalmente ambientata nel passato e nella nostra odierna realtà.

Fonti
Marguerite Yourcenar: Fuochi ed. Bompiani, traduzione di Maria Luisa Spaziani
Albin Lesky: Storia della letteratura greca vol. 1 ed. Il Saggiatore
R.M.Rilke: Prima Elegia in Elegie duinesi, a cura e trad. di Franco Rella, Bur Rizzoli, Milano
M.Jacoby: individuation and Narcissum, Routledge,London, New York, 1990

giovedì 8 giugno 2017

Cerimonia di premiazione del I Concorso Maria Occhipinti



Ieri pomeriggio alle 16, nell'auditorium del Liceo Caminiti di Giardini Naxos, si è svolta la cerimonia di premiazione della I edizione del Concorso di scrittura epistolare “Da questo luogo, da questo tempo”, dedicato a Maria Occhipinti.

Chi era Maria Occhipinti?






ILEANA  GIUFFRIDA DEL” LEONARDO” DI GIARRE 

CLASSE III L Linguistico

TRA I DIECI FINALISTI

 Fulvia Toscano
organizzatrice del Premio

Studenti finalisti



Marilena Licitra 

figlia di Maria Occhipinti

 Licia Cardillo scrittrice 

Ileana Giuffrida

Ileana
Sarah Santoro
Antonio Mascena

Ileana con le prof.sse Nelly Scandura e Maria Allo

Ileana Giuffrida



 Fulvia Toscano
organizzatrice del Premio

























lunedì 22 maggio 2017

Lo sperimentalismo emozionale di Amelia Rosselli


Premessa

A partire dalla seconda età del Novecento la poesia si trova in una fase difficile e complessa. La diffusione dei nuovi linguaggi e i grandi cambiamenti che interessano il mondo della comunicazione , provocano sulla poesia effetti contraddittori. Da una parte essa si trova messa in discussione perché considerata uno strumento espressivo superato, dall'altra parte può essere indicata quale unica alternativa possibile alla crisi della comunicazione fra gli individui. Si possono riconoscere due tendenze generali : una di tipo sperimentale , dunque di ricerca di avanguardia , una di tipo restaurativo o regressivo che ripropone la riscoperta di modi espressivi del passato. Nonostante il clima incerto, in Italia continua anche nella seconda metà del Novecento la stagione fortunata che caratterizza la nostra poesia del primo Novecento. Innanzitutto prosegue ad alto livello l’attività di alcuni grandi poeti già affermatisi nel periodo precedente.(basti pensare a Montale, attivo fino alla morte nel 1981); contemporaneamente si affaccia una nuova importante  generazione di poeti, nati per lo più negli anni Venti. Alcuni esordiscono nel  Dopoguerra , come Vittorio Sereni, Andrea Zanzotto, Pier Paolo Pasolini, altri come Sanguineti e  Pagliarani pubblicano intorno alla metà degli anni Cinquanta.E le donne? Nell'esiguo canone delle scrittrici del Novecento, Amelia Rosselli occupa un posto importante.



 Nata a Parigi nel 1930 dall'esule antifascista Carlo Rosselli e da madre inglese, oltre che in Francia, ha vissuto negli Stati Uniti e in Inghilterra. Rientrata in Italia nel 1950, si è stabilita a Roma, dove ha abitato fino alla morte, avvenuta nel 1996. Ha compiuto studi di teoria e composizione musicale, che hanno influenzato al sua scrittura in versi, e ha svolto attività di traduttrice e giornalista. Il suo debutto italiano in poesia avviene nei primi anni ’60, quando Pasolini pubblica una scelta dei suoi versi sulla rivista “Il Menabò" (1963) seguita dalla raccolta poetica Variazioni belliche, 1964. In seguito ha pubblicato: Serie ospedaliera, 1969 contenente il poemetto "La libellula", Documento, 1976 che raccoglie le poesie tra ‘66 e il ’73, Impromptu, 1981, Appunti sparsi e persi, 1983
Sleep, 1992. È autrice di versi anche in altre lingue, Primi scritti (1980) raccoglie testi in inglese, francese e italiano scritti tra il ‘52 e il ’63.  


Sonia Bergamasco racconta A. Rosselli
https://www.youtube.com/watch?v=3wxdwbHmfyw&t=6s







Una curiosità: si chiamava Amelia anche la madre dei fratelli Carlo e Nello Rosselli.




La Rosselli non è coinvolta dal peso della tradizione , non insegue un processo di svecchiamento della lirica italiana   e si tiene piuttosto in disparte dall'ambiente dell'Avanguardia  anche  per l'impronta in maschile del gruppo . Intanto  continua senza sosta a coltivare l’idea precisa e dichiarata di una  lingua poetica universale come universale è  la musica , in tal modo punta  al cuore della sua personale  ricerca e scandaglia l’esperienza sofferta nel corpo e nella psiche. Va comunque detto che  la poetica, fortemente innovativa nelle forme e dai toni profondamente dolorosi della Rosselli,  dà vita ad alcuni dei momenti più alti della sperimentazione letteraria contemporanea.

Punto di forza ? La competenza musicale ha inoltre  favorito nella Rosselli la ricerca di una nuova metrica, dove il valore fonico delle sillabe , delle vocali e delle consonanti, il ritmo della frase finiscono per prevalere sul significato e sulle forme consuete della lingua: questo comporta l’invenzione di parole , la polivalenza del significato, la presenza di metafore oscure che dicono le cose mentre le celano, e, non ultima l’esigenza che la poesia sia detta ad alta voce, ascoltata più che letta.
La poesia della Rosselli è unica, nel panorama letterario italiano, per il senso che trasmette di un coinvolgimento emotivo totale nella parola e , non solo. (Un precedente può forse essere indicato nella” scrittura automatica” teorizzata dai surrealisti , a patto però di aggiungere subito che si tratta di un automatismo voluto e controllato, regolato da un’attenta scansione ritmica). Musica, ritmo, suono, contaminazione delle lingue, ricerca di sempre nuovi sensi da comunicare: forma e significato sono elementi altrettanto imprescindibili e altrettanto curati nel fare poetico di Amelia Rosselli, della quale ormai non resta che ascoltare la voce:


Contiamo infiniti cadaveri di Amelia Rosselli


Questi versi appartengono alla serie Variazioni, datata 1960-1961
qui Rosselli piange il limite umano di fronte al male

5) Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l’ultima specie umana.
Siamo il cadavere che flotta putrefatto su della sua passione !
La calma non mi nutriva il solleone era il mio desiderio.
Il mio pio desiderio era di vincere la battaglia, il male,
la tristezza, le fandonie, l’incoscienza, la pluralità
dei mali le fandonie le incoscienze le somministrazioni                                         
d’ogni male, d’ogni bene, d’ogni battaglia, d’ogni dovere
d’ogni fandonia: la crudeltà a parte il gioco riposto attraverso
il filtro dell’incoscienza. Amore amore che cadi e giaci
supino la tua stella è la mia dimora.
Caduta sulla linea di battaglia. La bontà era un ritornello
che non mi fregava ma ero fregata da essa! La linea della
demarcazione tra poveri e ricchi.
Esplora il significato del termine: 5) Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l’ultima specie umana.
Siamo il cadavere che flotta putrefatto su della sua passione !
La calma non mi nutriva il solleone era il mio desiderio.
Il mio pio desiderio era di vincere la battaglia, il male,
la tristezza, le fandonie, l’incoscienza, la pluralità
dei mali le fandonie le incoscienze le somministrazioni
d’ogni male, d’ogni bene, d’ogni battaglia, d’ogni dovere
d’ogni fandonia: la crudeltà a parte il gioco riposto attraverso
il filtro dell’incoscienza. Amore amore che cadi e giaci
supino la tua stella è la mia dimora.
Caduta sulla linea di battaglia. La era un ritornello
che non mi fregava ma ero fregata da essa! La linea della
demarcazione tra poveri e ricchi.
Versi liberi, che hanno però una certa costanza ritmica, per quanto estranea alla metrica italiana tradizionale.
Analisi
I temi
Sullo sfondo di un mondo di stragi, lotte e “fandonie”, l’autrice afferma la sua dedizione alle passioni forti e autentiche, la volontà di non piegarsi ai mali e alle mistificazioni sociali., la fedeltà a una “bontà” che la relega inevitabilmente tra i “poveri”.
LE FORME
Questa affermazione non è affidata solo al senso delle parole , ma più alla struttura formale della poesia che si presenta come un flusso traboccante di emozioni e di idee, apparentemente incontrollato. Più che dichiarata la passione è in atto in un  , eslamativo, e insieme ritmato come una litania, attraverso le insistenti ripetizioni.
Tutto questo sembra scaturire da un livello psichico profondo , primitivo, che non può parlare una lingua ordinaria:la Rosselli svolge continuamente le regole della comunicazione normale con le volute goffaggini della lingua (“su della” ,”la crudeltà a parte il gioco”, “ero fregata da esso”) vv.4-8, con gli scarti fra lingua letteraria” la sua stella è la mia dimora “e volgare” non mi fregava “come chi si sforzasse di balbettare una lingua mal conosciuta. Il fatto che la R. fosse stata educata in francese e in inglese ha una sua rilevanza, ma nel senso che questo le dava una particolare sensibilità linguistica,* non nel senso che non fosse che non fosse in grado di scrivere in italiano normale.
*
E’ Pasolini a scoprire la poesia di questa scrittrice, che definisce ‹‹la più grande poetessa del Novecento››.
Pasolini pubblica nel 1963, sulla rivista letteraria ‹‹Il Menabò››, diretta da Italo Calvino, una prima scelta di Variazioni belliche della Rosselli, preparazione all’edizione in volume dell’anno successivo  e descrive la sua scrittura poetica come ‘scrittura di lapsus’: versi fatti di distrazione, caratterizzati da ‹‹una grammatica di errori nell'uso delle consonanti e delle vocali››.Il tema del lapsus, aveva precisato comunque Pasolini, è un piccolo tema secondario rispetto ai grandi temi della Nevrosi e del Mistero che percorrono il tema  E’ sempre Pasolini il primo a riconoscere, nello stile di Amelia Rosselli quella venatura di tragedia collettiva: ritornano i grandi temi della Nevrosi e del Mistero che percorrono l’opera pasoliniana, ma arricchiti da una dimensione numinosa femminile, tragica e dissacrante, che unisce alto e basso, lingua del passato e del presente, trasversalità e scardinamento di regole e misure. Insomma una scrittura pericolosamente libera . 
Sonia Bergamasco racconta Amelia Rosselli





I miei occhi non s'aprono, dal
sonno o dalla tortura [...]
[...] ho un cuore che scotta
e poi si sfalda per ingenuamente ricordarsi
di non morire.
Con la malattia in bocca
spavento [...]

Lettura su Prometeo 




ANALISI DEL TESTO 


Tènere crescite mentre l’alba s’appressa tènere crescite
di quest’ansia o angoscia che non può amare né sé né
coloro che facendomi esistere mi distruggono. Tenerissima
la castrata notte quando dai singulti dell’incrociarsi
della piazza con strada sento stridori ineccepibili,
le strafottenti risa di giovanotti che ancora vivere
sanno se temere è morireNulla può distrarre il giovane
occhio di tanta disturbanza, tante strade a vuoto, le
case sono risacche per le risate. Mi ridono ora che le
imposte con solenne gesto rimpalmano altre angosce
di uomini ancor più piccoli e se consolandomi d’esser
ancora tra i vivi un credere, rivedo la tua gialla faccia
tesa, quella del quasi genio- è per sentire in tutto
il peso della noia il disturbarsi per così poco.


da Serie ospedaliera (1969)



Questo testo  si riferisce all'esperienza della  malattia e in particolare della malattia psichica che ha colpito la poetessa in una fase della sua vita.Il tema della malattia è un grande tema novecentesco . Il punto di vista del malato può diventare un punto di vista spietatamente lucido sulla realtà , un p. v.capace di smascherare quanto di inautentico si annida nei meccanismi della vita sociale.In questo caso, ad es. la p. rappresenta il p. v.della malata e rappresenta attorno alla malata alcuni fatti e le cure di alcune persone che sono con lei nell’ospedale, totalmente incapaci però di mettersi  in sintonia con il suo p. di vista . Cerchiamo molto rapidamente di ricostruire le linee generali di significato del testo.
Si avvicina l’alba e l’ansia o angoscia della persona malata si sta risvegliando.e questo risveglio di ansia o di angoscia è qualcosa che la malata sente quale fatto positivo.
Infatti il fondo della depressione costituisce nel non percepire più neanche  l’angoscia della vita , nel non avere proprio più alcun sentimento, quindi il risveglio dell’ansia che è un segnale di vitalità per la malata, potrebbe essere l’indizio di una ripresa e di un ritorno alla vita. Tuttavia la malata non può amare né se stessa, non può cioè fare un sentimento positivo su di sé , ma non può amare neppure gli altri intorno che, facendola esistere la distruggono, la costringono a vivere curandola e per questo la fanno soffrire.
Accade poi un episodio:
Dalla strada si sentono arrivare le grida allegre di ragazzi che rientrano  tardi o che sono usciti prestissimo di mattina “giovinotti- dice la poetessa- che ancora vivere sanno se temere è morire . La loro allegria è il segno di chi  può vivere felicemente perché non teme ma colui che teme, colui che vive la vita come timore, muore, non può più vivere allegramente.Questi segnali di vita che provengono dalla strada sono l’oggetto su cui si appunta l’attenzione della malata. Nulla può distrarre il giovane occhio da tale disturbanza
Cioè lei si concentra su questo signale di vita, e la R. conia qui una parola di sua invenzione disturbanza che è una parola che ha un significato ambiguo, è l’essere disturbati ma anche l’essere distolti dal fondo della depressione .Mi ridono dice dopo,  forzando la sintassi, cioè sembra che quelle persone ridono proprio per lei proprio nel momento in cui qualcuno presente nella stanza , un uomo, chiude le persiane , chiude la finestra con un gesto solenne per non farle sentire quelle risa allegre della strada. Questo gesto è il segno che quella persona non ha capito affatto lo stato d’animo della poetessa che invece era entrata in sintonia con quell’allegria e quasi quasi ne era animata . Ma il modo inautentico di vivere i rapporti interpersonali ha fatto sì che questa persona che si prende cura di lei ha piuttosto temuto che sentir ridere dalla strada potesse dar noia all’ammalata. Ecco allora a questo punto la p. dice di sentire in tutto il peso della noia il disturbarsi per così poco, sente in tutto il peso di nuovo della noia della vita cioè della mancanza di vitalità  questo gesto che è un gesto che corrisponde al vuoto modo di dire disturbarsi per così poco , tanto disturbarsi per così poco è il ridere per le strade tanto il disturbarsi per così poco chiudendo  la finestra, ma quello che più conta è la ripresa della parola disturbare dove però l’uso questa volta  corretto disturbarsi e non più disturbanza serve a segnalare una differenza : mentre il fastidio provato dalla p. per il ridere nelle strade era positivo , il disturbo da lei provato per il gesto di chiudere la finestra è il normale disturbarsi  per la inautenticità dei rapporti tra le persone incapaci ,appunto  in questo caso, di entrare in sintonia con la sensibilità profonda della malata.





Da Documento 


Pietre tese nel bosco

Pietre tese nel bosco; hanno piccoli
amici, le formiche ed altri animali
che non so riconoscere.Il vento non
spazza via il sasso,quelle fosse, quei
resti d'ombra, quel vivere di sogni
pesanti
Resti nell'ombra: ho un cuore che scotta
e poi si sfalda per ingenuamente ricordare
di non morire.
Ho un cuore come quella foresta:tutta
sarcastica a volte, i suoi rami lordi
discendono sulla testa a pesarti.
La poesia è costruita su tre momenti: di sei versi la prima,di tre le ultime due. E’ la conferma della ricerca di un controllo formale e  ritmico , che si sforza di disciplinare la materia magmatica dell’ispirazione.
Lo spunto potrebbe essere ungarettiano, per quanto riguarda il rapporto fra il “cuore”  e il “paese straziato”,ma mentre in  Ungaretti è evidente  un folgorazione analogica qui la “foresta” , motivo diffuso da Dante all’Ariosto,dal Tasso al Baudelaire di Correspondances,  è assimilato al soggetto e diviene un simbolo beffardo  che esprime attraverso i tentacoli mostruosi dei “rami lordi” una  condizione di dissoluzione e di delirio che devasta, ma non recide il legame con l’ esistenza.
La parola finale “pesarti” v.6, riprende ,con il sapiente richiamo di una circolarità ossessionante , il pesarti collocato al centro del componimento.
L’ordine formale racchiude così una materia dirompente e devastante , che richiama l’esperienza allucinata di un poeta come Dino Campana.
Vedi https://liminamundi.wordpress.com/2017/02/03/dino-campana-visionario-alla-rimbaud/
San Martino del Carso
Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca
E’ il mio cuore
Il paese più straziato


Il suicidio

https://www.youtube.com/watch?v=5jBvt3ON_iU


Suicidio avvenuto esattamente trentatré anni dopo di quello di un'autrice da lei tanto studiata e tradotta con passione, Sylvia Plath. 

SCHOPENAUR sosteneva che il suicida vuole la vita , e in effetti stupisce la tragica esuberanza smaniosa di vita di famosi suicidi e pensiamo ad esempio a Silvia Plath, la poetessa americana che scriveva alla madre della sua " parossistica gioia di esistere" cosciente "delle fonti di tristezza e di dolore" da cui scaturivano.Scrive Silvia Plath nella poesia 



ARIEL DI Sylvia Plath

Stasis in darkness. 
Then the substanceless blue   
Pour of tor and distances. 

God’s lioness,   
How one we grow, 
Pivot of heels and knees!—The furrow 

Splits and passes, sister to   
The brown arc 
Of the neck I cannot catch, 

Nigger-eye   
Berries cast dark   
Hooks—

Black sweet blood mouthfuls,   
Shadows. 
Something else 

Hauls me through air—
Thighs, hair; 
Flakes from my heels. 

White 
Godiva, I unpeel—
Dead hands, dead stringencies. 

And now I 
Foam to wheat, a glitter of seas.   
The child’s cry 

Melts in the wall.   
And I 
Am the arrow, 

The dew that flies 
Suicidal, at one with the drive   
Into the red 

Eye, the cauldron of morning.


ARIEL
Stasi nel buio.
Poi l'insostanziale azzurro
versarsi di vette e distanze.
Leonessa di Dio,
come in una ci evolviamo,
perno di calcagni e ginocchi! - La ruga
s'incide e si cancella, sorella
al bruno arco
del collo che non posso serrare,
bacche
occhiodimoro oscuri,
lanciano ami -
boccate di un nero dolce sangue,
ombre.
Qualcos'altro
mi tira su nell'aria -
Cosce, capelli;
dai miei calcagni si squama.
Bianca
godiva, mi spoglio -
Morte mani, morte stringenze.
E adesso io
spumeggio al grano, scintillio di mari.
Il pianto del bambino
nel muro si liquefà.
E io sono la freccia,
la rugiada che vola suicida,
in una con la spinta
dentro il rosso
occhio, cratere del mattino.


Prometeo 


Disse bene anni dopo il critico Pier Vittorio Mengaldo a proposito della lingua della Rosselli definendola: ‹‹un organismo biologico, le cui cellule proliferano incontrollatamente in un'attività riproduttiva che come nella crescita tumorale diviene patogena e mortale››. Molti critici infatti, valutando la quantità di elementi di disagio, malinconia, depressione, nevrosi di cui le poesie sono colme, concordano nel sostenere che quello di Amelia Rosselli sia stato un suicidio lentamente, gradatamente preannunciato nei suoi versi. 



Biografia • Il ritmo faticoso della sofferenza
Bibliografia essenziale


Amelia Rosselli nasce il 28 marzo del 1930 a Parigi, figlia di Marion Cave, un'attivista del partito laburista britannico, e di Carlo Rosselli, esule antifascista (fondatore di Giustizia e Libertà) e teorico del Socialismo Liberale.
Nel 1940, ancora bambina, è costretta a fuggire dalla Francia in seguito all'assassinio, compiuto dalle cagoulards (le milizie fasciste), del padre e dello zio Nello, voluto da Benito Mussolini e da Galeazzo Ciano.
Il duplice omicidio la traumatizza e la sconvolge dal punto di vista psicologico: da quel momento Amelia Rosselli comincia a soffrire di ossessioni persecutorie, convinta di essere seguita dai servizi segreti con lo scopo di ucciderla.
Esule con i suoi familiari, si trasferisce in un primo momento in Svizzera, per poi spostarsi negli Stati Uniti. Si cimenta in studi di carattere musicale, filosofico e letterario, pur senza regolarità; nel 1946 torna in Italia, ma i suoi studi non le vengono riconosciuti, e decide quindi di andare in Inghilterra per completarli.
Tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta si dedica alla composizione, all'etnomusicologia e alla teoria musicale, non rinunciando a realizzare alcuni saggi sul tema. Nel frattempo nel 1948 inizia a lavorare per diverse case editrici di Firenze in qualità di traduttrice dall'inglese.
Gli anni '50 e '60

In seguito prende a frequentare, tramite l'amico Rocco Scotellaro, incontrato nel 1950, e Carlo Levi, gli ambienti letterari romani, entrando in contatto con gli artisti che genereranno l'avanguardia del Gruppo 63.

Negli anni Sessanta si iscrive al Partito Comunista Italiano, mentre i suoi testi attirano l'attenzione, tra gli altri, di Pasolini e di Zanzotto. Nel 1963 pubblica ventiquattro poesie su "Il Menabò", mentre l'anno successivo dà alle stampe per Garzanti "Variazioni belliche", la sua prima raccolta di poesie. In essa Amelia Rosselli mette in mostra il ritmo faticoso della sofferenza, senza nascondere la fatica di un'esistenza contrassegnata in maniera indelebile da un'infanzia di dolore.