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martedì 4 febbraio 2014

Età Flavia 69-96 D.C.:LA POLITICA RESTAURATRICE



ETÀ DEI FLAVI 69-96 A.C

Vespasiano, Tito, Domiziano: periodo felice durante il regno dei primi due imperatori, mentre il comportamento di Domiziano è più vicino a quello di Caligola e di Nerone e lo porta alla morte di congiura di matrice aristocratica.
Nell'anno 69 d.C. Muore Nerone, l'ultimo imperatore appartenente alla dinastia giulio-claudia. L'anno 68-69 è chiamato l'anno dei 4 imperatori, il quarto è Vespasiano, il primo della dinastia flavia. I quattro imperatori vengono eletti in successione rapida, non necessariamente a Roma, ma anche nelle provincie, dall'esercito e dai pretoriano che hanno acquisto grande potere e importanza. Dopo l'eliminazione di Domiziano, vengono eletti prima Marco Cocceio Nerva poi Traiano, la cui conquista di Dacia segna la massima estensione dell'impero romano.
I quattro imperatori dopo la morte di Nerone sono:
1. Galba, nominato a Roma;
2. Otone, generale di truppe a Lusitania, conduttore della sommossa dei pretoriano contro Galba;
3. Vitellio: generale di truppe in Germania, sconfigge Otone;
4. Vespasiano: imperatore dominato per domare la rivolta dei Giudei. Un generale di formazione militare, lascia il comando dell'esercito al figlio Tito, sconfigge Vitellio e conquista il potere.
Vespasiano è un abile amministratore, non sperpera. La sua politica lo rende un “novello Augusto”: rifonda l'impero che era ormai degenerato anche agli occhi dei sudditi a causa della dinastia giulio-claudia, affinché l'opinione pubblica abbia una giusta idea dell'imperatore.
La lex de imperio di Vespasiano: è una legge con cui il senato sancisce tutti i poteri del principe e stabilisce la prerogativa dell'imperatore. A Nerone “imperatore esibitore” si sostituisce un imperatore amministratore.
Tito (79-81), molto amato da essere chiamato “Deliciae generi humani”. Amabile e affabile, grande umanità, reazioni efficaci alle calamità (come l'eruzione del Vesuvio) con soccorsi immediati. Durante il suo impero, precisamente nell'anno 80, viene completata la costruzione dell'anfiteatro flavio, chiamato Colosseo: viene inaugurato con una festività di 100 giorni.
Negatività di Tito: distruzione totale del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. (rimane solo il muro del pianto) → Giudea completamente sottomessa con cui inizia la diaspora degli ebrei.
Domiziano: ritorna a Nerone con una svolta autocratica, in quanto il potere viene esercitato solo per sé, autoritario e assoluto, non vincolato. Pretese di essere chiamato “Dominus et deus”, reincarnazione divina: questo fatto è dovuto alla penetrazione delle mode orientali di età ellenistica sui modi di governo. Clima teso a causa soprattutto del costume della delazione e la lesa maestà. Forte censura che non lascia la libertà di espressione.

QUADRO CULTURALE
Emergono:

Controllo molto stretto sulla cultura: Vespasiano esercita questo controllo perché è molto impegnato nella rifondazione dell'impero e trascura l'ambito culturale. Questo controllo ha due fini: 1) ritorno all'età augustea per salvare l'impero ormai screditato; 2) stroncare sul nascere qualsiasi forma di opposizione;
Burocratizzazione degli intellettuali: l'istruzione superiore mira creare dei burocrati della parola, dei fedeli funzionari ed esecutori di ordini superiori.

La disciplina più importante nella formazione è la retorica, mentre prima era la filosofia che ora viene vista come un pericolo dagli imperatori in quanto è ideologicamente libera → avversione per l'insegnamento filosofico che porta a bandire alcuni filosofi. La burocratizzazione degli intellettuali mira a creare funzionari abili e a eseguire ordini superiori e veicolare le direttive degli imperatori → il burocrate intellettuale è una figura nuova. Il fisco imperiale finanzia le cattedre di retorica che viene considerata l'ultima tappa della formazione di un burocrate intellettuale.
All'ideale di libertas si sostituisce l'ideale del servizio verso l'imperatore e verso lo stato: colui che serve più fedelmente è il più prestigioso. Il momento più buio è con Domiziano: censura sistematica che si traduce nel bruciare le opere e mettere a morte gli autori. Gli “annales” di Tacito ne parla. Il rapporto con l'intellettuale risulta complicato e caratterizzato dalla tensione, in cui l'autore si deve piegare al governo.



Marco Fabio Quintiliano
--- Calahorra, Spagna 35 ca – Roma 95 ca d.C. ---


Già dall’età classica l’esigenza di comunicare tra individui è stata oggetto di studio approfondito da parte dei filosofi di tre discipline fondamentali: Dialettica, Retorica e Oratoria. Quintiliano fu il maggiore maestro e teorico dell’eloquenza nell’età imperiale e fu con lui che la comunicazione diventò formativa, dove la comunicazione oratoria/retorica (eloquenza) si fonde con quell’educativa/istruttiva (scienza pedagogica). Per Quintiliano la retorica era il perno delle attività culturali e spirituali dell’individuo; l’oratore non era solo un tecnico della parola, ma soprattutto un uomo partecipe appieno dei molteplici aspetti della realtà in cui viveva e con cui si misurava per mezzo dei suoi discorsi.


Vita.

Maestro di retorica pagato dal fisco imperiale. Giunto a Roma nel 68 d.C., ivi fu educato alla scuola di illustri maestri di eloquenza. Esercitò in Spagna l’insegnamento e l’avvocatura con notevole successo, finché fu richiamato a Roma da Galba, nel 68 d.C., dove esercitò l'avvocatura e (soprattutto) incominciò la sua attività di maestro di retorica, con tanto successo che nel 78 Vespasiano gli affidò quella che può ben dirsi la prima cattedra statale in assoluto: l'imperatore gli accordò un onorario annuo di 100.000 sesterzi, dando così riconoscimento all'importanza dell'arte retorica nella formazione della gioventù e soprattutto mostrando (discorso, questo, valido del resto per tutti i Flavi) d'aver ben capito l'importanza della retorica come strumento per la formazione del futuro "ceto dirigente" e per l'adesione delle coscienze (e quindi per la creazione del consenso).

Ma se la vita pubblica di Q. fu abbastanza agiata, quella privata fu turbata da gravi sventure domestiche: la morte della moglie giovanissima e di due figli che da lei aveva avuto. Fra i suoi numerosi allievi, ebbe Plinio il Giovane e, forse, Tacito; Domiziano lo incaricò dell’educazione dei suoi nipoti, cosa che gli valse gli "ornamenta consolatoria". Nell’88 si ritirò da tutto per darsi completamente agli studi, in specie al suo capolavoro.



Le opere:

Perdute:



De causis corruptae eloquentiae: il trattato si inseriva nell’annoso dibattito sulle cause della decadenza dell’eloquenza, identificate da Quintiliano nella corruzione morale degli insegnanti (egli cita come esempio Remmio Palèmone), nel malcostume della delazione, che si serviva spesso dell’eloquenza con finalità ricattatorie, e nella degenerazione del gusto letterario, il cui principale responsabile per Quintiliano è Seneca.


Artis rhetoricae libri: in 2 libri, erano dispense raccolte dagli allievi di Quintiliano e pubblicate contro la sua volontà.



Conservate:


Institutio oratoria
in 12 libri, iniziata nel 93 e pubblicata poco prima della morte di Domiziano (96);

19 declamationes maiores e 145 declamationes minores (che originariamente erano 388), tutte spurie; le maiores sono frutto di un falso del IV sec., le minores, invece, risalgono al I-II sec. (queste ultime sono almeno di scuola quintilianea).

L'Institutio oratoria:

Dedicata a Vitorio Marcello, oratore ammirato da Stazio e amico di Valerio Probo, è preceduta da una lettera a Trifone, l'"editore" che deve curarne la diffusione.


Piano dell’opera:

Libri 1-2: celeberrimi, sono di contenuto pedagogico: trattano dell'insegnamento elementare e superiore e dei doveri dell'insegnante.

Libri 3-9: trattazione tecnica delle prime 3 sezioni della retorica: inventio, dispositio, elocutio.


Libro 10: come acquisire la facilitas, la disinvoltura nell'esprimersi; excursus sulla produzione letteraria greca e latina.

Libro 11: le ultime 2 sezioni della retorica: memoria ed expositio (o actio).

Libro 12: i requisiti culturali e morali dell'oratore; i rapporti fra l'oratore e il princeps.

Temi dell'opera:

La corruzione dell'eloquenza, di cui Quintiliano si era già occupato nell’opera specificamente dedicata all’argomento, è per lui conseguente alla degradazione morale di un’intera generazione ed è particolarmente evidente dal decadimento delle scuole (in cui l'affermarsi delle declamationes è per Quintiliano un sintomo di decadenza anche letteraria e di gusto).

L'Institutio oratoria vuole essere proprio il programma di rifondazione della scuola.

Anzitutto Quintiliano prende in esame, nei primi due libri, la delicata questione del rapporto educativo, delineando quale dev’essere il ruolo del docente a tutti i livelli d’insegnamento ed indicando come necessità primaria la serietà morale; da questa parte introduttiva emerge con chiarezza l’altissimo concetto dell’educazione proprio dell’autore, l’estrema serietà del suo impegno in tal senso, l’acume psicologico con cui si accosta al discente, con profondo amore e straordinario rispetto, fornendo indicazioni di valore universale agli insegnanti ed agli educatori di tutti i tempi.

Quindi, nel delineare i contenuti dell’insegnamento medio superiore, Quintiliano riprende programmaticamente l'eredità di Cicerone, adattandola ai propri tempi, nella convinzione che un uso linguistico "sano" sia nello stesso tempo conseguenza e causa di un atteggiamento mentale (e di conseguenza morale e sociale) "sano". Uno stile come quello di Seneca, ad esempio, che disarticola il periodo e sottintende i connettivi sintattici, risulta a parere di Quintiliano profondamente diseducativo per i giovani, perché impedisce loro di cogliere i nessi logici esistenti fra le cose; al contrario, uno stile che preveda una rigorosa organizzazione sintattica li abituerà a stabilire rapporti gerarchici corretti fra i molteplici aspetti della realtà: questo modello stilistico "classico" è chiaramente identificato da Quintiliano nelle ampie e ben strutturate architetture linguistiche di Cicerone.

Lo stile del perfetto oratore, tuttavia, non deve riecheggiare quello ciceroniano in modo pedissequo e manieristico: Quintiliano auspica soprattutto l'equilibrio fra i due eccessi più in voga al momento, quello dell’asciutto arcaismo e quello dell'asianesimo sovraccarico ed ampolloso (Lucano) oppure conciso e martellante (Seneca); per questo suo ideale di equilibrio classico Quintiliano sarà molto amato dalla cultura del Rinascimento.

Come Cicerone, così anche Quintiliano è convinto che il buon oratore debba possedere un'ampia cultura; tuttavia per lui la filosofia appare meno importante che per Cicerone.

L'intellettuale e il potere:

Quintiliano nel 12° libro dell’Institutio affronta il delicato tema dei rapporti fra l’intellettuale ed il potere imperiale.

Egli accetta l'autorità del principato, ma non incondizionatamente: deve trattarsi di un "buon" principato, di un governo illuminato che permetta all’intellettuale di ritagliarsi i suoi spazi di indipendenza e di dignità professionale, di svolgere un ruolo importante per il principe e per la società, evitando gli opposti eccessi (deprecati anche da Tacito) della sterile opposizione al principato e del servilismo, fungendo da guida per il senato ed il popolo.

Il suo è per molti versi un giudizio miope ed antistorico: in una realtà come quella del principato, la sola libertà possibile per un intellettuale "integrato" è quella dell’ossequio nei confronti delle direttive di regime, e se la situazione può apparire positiva è solo perché si verifica casualmente una coincidenza di vedute tra il letterato ed il princeps: in caso contrario non vi sono correttivi possibili ed all’intellettuale non resta che il silenzio. D’altronde come potrebbe essere diversamente, quando l’oratore non è che un subalterno (principescamente stipendiato!), un "burocrate della parola" (Conte), un onesto funzionario che comunica al pubblico le direttive del princeps, mediate dalla forma letteraria?

Ben più lucida sarà la diagnosi formulata da Tacito (se è suo il Dialogus de oratoribus), secondo il quale la fine della libertà repubblicana ha determinato di fatto per gli intellettuali, e per gli oratori in particolare, la perdita di ogni incidenza politica e l’impossibilità di ricoprire un ruolo socialmente rilevante (di qui la decadenza dell’eloquenza e della cultura in genere).



Le fonti dell’educazione



Il processo educativo di Quintiliano prevede due parti essenziali: “L’EDUCAZIONE MORALE e L’EDUCAZIONE INTELLETTUALE”; il loro sviluppo viene affidato a quelle che erano le istituzioni tradizionali dell’educazione romana:

La “FAMIGLIA” e la “SCUOLA”.



La famiglia

La prima fase dell’educazione del fanciullo[2] era affidata alla famiglia, nella quale, Quintiliano riconosce anche sé, contro tradizione, l’efficacia della madre anche nel campo della cultura.

L’ambiente familiare aveva il compito di impartire una prima formazione morale, ritenuta da Quintiliano, basilare ed essenziale per la formazione dell’uomo e quindi dell’oratore e, inoltre, quello di curare un corretto apprendimento del linguaggio, con la precauzione di tenere lontano dalle orecchie e dalle labbra del fanciullo ogni linguaggio poco pulito.

La preoccupazione di Quintiliano, era quella di non trascurare questo primo periodo della vita, perché, il fanciullo fin dalla nascita, osserva, ascolta e tenta con l’imitazione di riprodurre le espressioni degli altri conservando fortemente quelle impressioni che tanto sono più cattive tanto più restando tenaci nell’animo del fanciullo. Quindi, si può capire, come sia fondamentale, per Quintiliano, il possesso di una buona moralità degli adulti che stanno affianco dei fanciulli;

Nell’indicare gli adulti, egli, si riferisce non solo ai genitori ma a tutti gli altri che gli sono a contatto come le nutrici, gli schiavi e soprattutto i pedagoghi.



Il maestro

Per Quintiliano l’atto educativo non è un processo naturale, bensì un atto intenzionale che deve essere affidato a chi sappia guidare il minore nella sua ascesa verso la maturità: questa figura è quella del maestro.

Figura necessaria non solo come tecnico del sapere ma anche come uomo, capace di instaurare un nuovo rapporto educativo fondato sul reciproco senso di stima e affetto; il maestro, dice Quintiliano, tratti i suoi discepoli sempre come piccoli uomini e loro lo considerino un genitore spirituale, un modello a cui gli alunni si propongono di imitare.

Occorre che il maestro sappia contemperare la sua autorità con la benevolenza; autorità fondata sul fatto che sia il maestro ad impostare e giudicare l’educazione.

Uno degli aspetti nei quali si esprime la comprensione che egli ebbe del fanciullo, e’ quello che concerne i premi e i castighi: “Fin dai primi anni si comincino a lodare i suoi tentativi e lo si ricompensi con opportuni premi; quando qualcosa non va, il maestro trovi il modo più efficace per rendere consapevoli i discepoli del loro torto, ma in modo di non scoraggiarli e stimolarli a far meglio[3]. E’ ovvio che in questa raffigurazione del maestro, Quintiliano, disconosce l’uso dei castighi in genere e, particolarmente dei castighi corporali: inutili e offensivi per la dignità del minore.

La figura del maestro che egli descrive, esprime tutta la sua fede nell’atto educativo: sia, il buon maestro, d’onesti costumi e abbia una solida cultura, sia fermo nei suoi principi e abbia fede negli ideali, sia ottimista sulla natura degli uomini e sull’efficacia del proprio magistero educativo, sia affabile e modesto e si lasci guidare dall’affetto per la propria opera.

Il maestro, afferma Quintiliano, deve conoscere, anche, la psicologia dei suoi alunni per permettergli la comprensione del discepolo e adeguare l’opera educativa alla sua personalità e al suo particolare momento psicologico.