Siamo su Dienneti

giovedì 20 dicembre 2012

La ginestra o il fiore del deserto





Qui su l'arida schiena 
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De' tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de' mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de' potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
(Giacomo Leopardi 19° secolo)

Nel 1836 Leopardi si trova a Napoli da tre anni e compone la sua poesia La ginestra o il fiore del deserto a Torre del Greco, da dove vede il Vesuvio che nel 79 d.C aveva distrutto Pompei ed Ercolano. Questa visione storica porta Leopardi a una riflessione sul presente, a una critica del suo tempo, ma anche a una nuova indagine filosofica sul tema della morte, della catastrofe, del tragico destino umano che trascende le epoche storiche e accomuna tutti. Dal componimento emerge anche l'antiantropocentrismo di Leopardi, già presente nelle Operette Morali: l'uomo, che si crede al centro dell'universo, è in realtà soltanto una delle tante specie che ne fanno parte. Nella quinta stanza della Ginestra si sviluppa il meraviglioso paragone tra la distruzione della raffinata civiltà di Pompei ed Ercolano e delle formiche schiacciate dal cadere di un frutto a terra. Leopardi smentisce così ogni forma retorica del progresso umano. Ma di fronte a questo destino di catastrofe si annuncia un'unione di tutte le specie nella comune consapevolezza di un destino che tutte le comprende. L'uomo è destinato ad essere sconfitto nella sua guerra contro la natura. Questa può "annichilare" tutto il genere umano, e distruggere tutte le civiltà e le speranze, ma matrigna e terribile produce anche il suo contrario, il suo rimedio che è incarnato nel fiore del deserto, la ginestra. Di fronte al deserto, alla perdita di ogni speranza e all'impossibilità di una prospettiva per il futuro si sparge il suo profumo, così la scrittura poetica nasce dall'apparir dell'"arido vero", ma mantiene intatta la sua fragranza. In questi trecento versi Leopardi riflette sul destino dell'umanità, sulla sua presenza sul pianeta e la dipinge come umana compagnia, al di là di ogni speranza e azione.

venerdì 14 dicembre 2012

A SILVIA

Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore.
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.

 “A Silvia” è una canzone libera costituita da versi endecasillabi e settenari e da un numero variabile di stanze. In questa poesia, scritta a Pisa nel 1828, Silvia, più che identificarsi in Teresa Fattorini, è simbolo dell’adolescenza, periodo della vita pieno di innocenza, di timidezza, di sogni e fantasie, di speranze per l’avvenire. Queste qualità si rivelano nelle espressioni “occhi ridenti e fuggitivi”, “lieta e pensosa” ma l’aggettivo “pensosa” è la chiave che permette al poeta di dare una diversa impostazione al tono del suo canto. Quei “pensieri soavi” di “un vago avvenir” sono stati stroncati da un male incurabile che ha portato Silvia alla morte prematura e le ha impedito di raggiungere “il fior degli anni tuoi”. Al poeta, che allora si lasciava trasportare dai sogni, il destino ha negato anche la giovinezza, ora non gli rimane che piangere per quella speranza che non si è mai realizzata. Leopardi, in questo Grande Idillio, si dimostra convinto che le speranze di tutti gli uomini cadano di fronte alla cruda realtà della vita e che non resti loro altro che la sconsolata attesa della morte (pessimismo cosmico). Anche in questa lirica parti descrittive ( che seguono l’ordine dell’immaginazione e del ricordo anziché della logica) e riflessive si alternano sul piano del passato e del presente, dei ricordi e delle riflessioni.

Sempre più in Leopardi matura la convinzione del dissidio tra i sogni della gioventù e la cruda realtà dell’età matura. Egli vede la giovinezza come un mito, un periodo della vita non solo sua, ma di tutti gli uomini, intessuto di sogni e di speranze che l’età matura distrugge. “A Silvia” si regge su un processo di generalizzazione o di simbolizzazione, per cui un fatto contingente suggerisce al poeta una meditazione più vasta, viene preso a simbolo di una caratteristica essenziale, della natura umana. La disillusione, che prima era limitata al sentimento della propria infelicità personale, ora, dopo il 1828, è diventata certezza dell’infelicità universale. La speranza caduta è rappresentata con immagini che ne mettono in risalto la irrevocabilità. Il ricordo della giovinezza con le sue illusioni non ricorre più nel pensiero del poeta come una lieta memoria di un’età felice, ma appare come l’amara riprova di un beffardo inganno che la “natura matrigna” gioca ai mortali. Con i Grandi Idilli, egli abbandona la lirica dell’immaginazione per creare una poesia del sentimento. “La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento” è la frase scritta nello Zibaldone nel 1828. La poesia diventa possibile solo attraverso il ricordo, attraverso la commozione che nasce dal contrasto tra il vuoto della vita adulta e le speranze della giovinezza. Il presente, il reale sono meschini e deludenti, quindi le sensazioni poetiche non derivano immediatamente dalle cose in sé, ma dall’immagine che abbiamo ricevuto nella fanciullezza e che possiamo ricordare. La poesia per Leopardi è quindi “rimembranza“ di come nella giovinezza appaiono le cose, cioè vaste e indefinite. In questo Canto gli elementi fisici trasfigurati dall’immaginazione costituiscono l’avvio del processo poetico: essi stimolano in Leopardi il flusso dei pensieri e dei sentimenti. Le rime varie, le numerose allitterazioni e assonanze creano un ritmo musicale fluido e scorrevole. Le figure retoriche, gli arcaismi e i latinismi arricchiscono un linguaggio già ricercato.

giovedì 13 dicembre 2012

L'INFINITO

Manoscritto

L'infinito è una delle più celebri poesie di Leopardi, si trova nella raccolta degli Idilli, ed è stata composta nel 1819. Con il termine idillio il poeta si richiama alla tradizione poetica classica di Teocrito e dei poeti alessandrini.Il termine" idillio"deriva dal greco eidyllion che  significa piccola immagine , quadretto,e dunque poesia breve .Il vocabolo passò già nella Grecia antica a indicare un genere di poesia bucolica, agreste , in cui l'autenticità della vita di campagna viene contrapposta alle difficoltà  della vita cittadina.Così paradossalmente il senso del limite, la visione costretta sono alla base dell'Infinito.
Nel componimento ci si trova davanti a una doppia immagine: quella degli occhi, limitata e sbarrata, e un'immagine virtuale, che "nel pensier si finge". L'immagine creata dal poeta è così forte e intensa che per poco il suo animo non si spaventa. In tutta la poesia è presente un passaggio tra ciò che vediamo e sentiamo e ciò che immaginiamo, ricordiamo e presentiamo. Questo continuo spostamento tra piano reale e piano fittizio spinge il soggetto all'estremo limite delle sue facoltà razionali. Ciò ricorda a Leopardi l'immagine di un naufragio o della morte stessa.

Stile dell'opera 
Questa poesia si compone di quindici versi endecasillabi, interrotti da numerosi enjambements, che idealmente ampliano il significato di un periodo annullando la pausa del ritmo. L'Infinito, infatti, si compone di quattro lunghi periodi, di cui solo il primo e l'ultimo terminano alla fine di un verso. Il gioco di allitterazioni ed assonanze, poi, regala alla composizione una musicalità interiore, in tema con l'argomento trattato.
L'uso di termini vaghi serve a dare una sensazione di indefinito spazio-temporale che è necessaria a concentrarsi sull'io, e che sollecita l'immaginazione del lettore. È da notare l'impiego di dimostrativi come "questo" o "quello", tesi a descrivere la lontananza dell'oggetto sul piano soggettivo e non su quello oggettivo.
L'autore si serve anche di numerose figure retoriche per sottolineare la musicalità del componimento: iperbati, e metafore danno al componimento un'espressività unica e ammirevole.

Significato del componimento 

L' idillio si configura come uno studio visivo-prospettico degli elementi del paesaggio per produrre nel lettore la suggestione "dell' Infinito". La vaghezza del linguaggio, basata sull' uso di parole di significato indeterminato, le quali, più che precisare le cose secondo le categorie di spazio e di tempo, ne sfumano i contorni, e con il caratteristico vocabolario leopardiano (ermo, interminati, sovrumano, ecc..) producono quella poesia dell' indefinito che è spesso funzionale a quella dell' infinito.
Nell'Infinito Leopardi si concentra decisamente sull'interiorità, sul proprio io, e lo rapporta ad una realtà spaziale e fisica, in modo da arrivare a ricercare l'Infinito. L'esercizio poetico, dunque, si pone come superamento di ogni capacità percettiva, di cui la natura è il limite (rappresentato dalla siepe). Tra la minaccia del silenzio (e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo, ove per poco / il cor non si spaura versi dal 5 all'8) e la sonorità della natura (E come il vento / odo stormir tra queste piante, versi 8 e 9), il pensiero afferra l'inafferrabile universalità dell'Infinito, superando la contingenza di ciò che ci circonda, che è l'esperienza fortemente voluta dall'autore.
Il poeta, seduto davanti ad una siepe, immagina oltre questa spazi interminabili, che vanno oltre anche la linea dell'orizzonte che la siepe in realtà nascondeva. Richiamato alla realtà da un rumore, da una sensazione uditiva, estende il suo fantasticare anche nell'immensità del tempo. L'Infinito, dunque, ha una duplice valenza: spaziale e temporale.
L'Infinito, nella visione leopardiana, non è un infinito reale, ma è frutto dell'immaginazione dell'uomo e, quindi, da trattare in senso metafisico. Esso rappresenta quello slancio vitale e quella tensione verso la felicità connaturati ad ogni uomo, diventando in questo modo il principio stesso del piacere. L'esperienza dell'Infinito è un'esperienza duplice, che porta chi la compie ad essere in bilico tra la perdità di sé stesso (Così tra questa / immensità s'annega il pensier mio versi 13 e 14) e il piacere che da ciò deriva (e il naufragar m'è dolce in questo mare verso 15).
Per l'autore il desiderio di piacere è destinato a rinnovarsi; ricercando sempre nuove sensazioni, scontrandosi inevitabilmente con il carattere provvisorio della realtà, per terminare al momento della morte. Secondo questa teoria (teoria del piacere), espressa nello Zibaldone, l'uomo non si può appagare di piaceri finiti, ma ha necessità di piaceri infiniti nel numero, nella durata e nell'estensione: tali piaceri, però, non sono possibili nell'esperienza umana. Questo limite, tuttavia, non persiste nel campo dell'immaginazione, che diventa una via d'accesso ad un sentimento di piacere (espresso nell'ultimo verso) nella fusione con l'infinità del mare dell'essere.
È importante notare, tuttavia, che l'infinito leopardiano non è simile a quello di altri poeti romantici, in cui esso era straniamento dalla realtà per mezzo della semplice fuga nell'irrazionalità e nel sogno: la scoperta e l'esperienza dell'Infinito sono processi immaginativi sottoposti al controllo razionale. Il soggetto, cioè, crea consapevolmente il contrasto tra ciò che è limitato e ciò che è illimitato (l'ostacolo e l'infinito spaziale), e tra ciò che è contingente e ciò che è eterno.
Tale considerazione ci porta a contemplare quello che è il pessimismo dell'autore: egli è consapevole della vanità del suo tendere, sa che tutto è frutto della sua immaginazione, per quanto questa situazione sia dolce.


Analisi del componimento
Tutto l’idillio è dominato, sia dal punto di vista stilistico che da quello grammaticale-sintattico, dalla giustapposizione ed accostamento di elementi, che fa da pendant ad una struttura distesamente paratattica, basata cioè sulla coordinazione, del discorso: nei vv. 1-2 "quest’ermo colle / E questa siepe", dove si nota anche lo zeugma nella concordanza tra i due termini e "Sempre caro", nel v. 4, "sedendo e mirando", che mette in relazione i due gerundi nei quali è condensata la situazione da cui origina il testo poetico: l’atto di sedere e di guardare al di là della siepe; nei vv. 5-6, dove, all’enumerazione di oggetti retti da "io nel mio pensier mi fingo", posticipato al v. successivo secondo una costruzione molto frequente nella poesia leopardiana, si accompagna l’uso dell’allitterazione in "s" ("Spazi... sovrumani / Silenzi, e profondissima"), e gli enjambement consecutivi dei vv. 4-5 e 5-6.
Il v. 8 fa da spartiacque tra la prima parte, dominata dalla descrizione, e la seconda, dove il discorso prende un andamento più interiore e si arricchisce via via di quei significati che sono il risultato del convergere dei motivi che sono tipici del pensiero leopardiano contemporaneo: la similitudine con la natura ("E come il vento...") e il tema del ricordo che dà luogo all’enunerazione più lunga del componimento, quella dei vv. 11-13: "e mi sovvien l’eterno, / E le morti stagioni, e la presente / E viva, e il suon di lei", dove balza all’occhio come la parola "silenzio", che al v. 6 si trovava correlata a "profondissima quiete", è ora messa in relazione con "voce" e che il termine "infinito", che dà il titolo all’idillio apre il v. 10 come aggettivo concordato con silenzio mentre in chiusa Leopardi preferisce avvalersi del sostantivo "immensità".
L’enumerazione dei vv. 11-13 dà luogo, tra i vv. 12-13 anche all’anafora di "E", che richiama quella del v. 2 e viene richiamata ancora al v. 15. Molto misurata è la poesia nell’uso degli aggettivi, quasi sempre attinenti alla sfera dell’indeterminato o di grado superlativo ("ultimo", nel senso per esempio di "estremo", "interminati", "sovrumani", "profondissima", dove la quiete acquista un’estensione spaziale che completa il precedente "sovrumani spazi", "infinito", "eterno"). Spiccano pertanto il "caro" del v. 1 e il "dolce" del v. 15 attraverso i quali si compie la parabola dello straniamento tracciata nell’"Infinito": il colle e la siepe, schermo materiale e opaco, si dissolvono lasciando il posto al mare dell’immensità dove il pensiero naufraga come in un abbraccio con la natura e con i ricordi; mentre tutto interno a questo percorso è l’accostamento tra "morte stagioni" e "viva" dei vv. 12-13, specchio dell’opposizione tra il passato e il presente.


Giacomo Leopardi, che Calvino aveva scelto come autore che nella sua poetica poco concede all'esattezza, si rivela invece un decisivo testimone a favore. Infatti il poeta del vago può essere solo il poeta della precisione, che sa cogliere la sensazione più sottile con occhio, orecchio, mano pronti e sicuri.
Per specificare il significato del termine vago nella lingua italiana occorre considerare come questa parola porti con sé un'idea di movimento e mutevolezza, che s'associa tanto all' incerto e all' indefinito quanto alla grazia e alla piacevolezza.
Ecco i passi dello Zibaldone in cui Leopardi fa l'elogio del vago, elencando situazioni propizie allo stato d'animo dell'"indefinito":
<<...la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov'essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da detta luce, e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov'ella diventi incerta e impedita, e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce veduta in luogo, oggetto, ec. dov'ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto ec. dov' ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori, e in una loggia parimente ec. quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell' ombra, in modo che ne sieno indorate le cime; il riflesso che produce, per esempio, un vetro colorato su quegli oggetti su cui si riflettono i raggi che passano per detto vetro; tutti quegli oggetti insomma che per diversi materiali e menome circostanze giungono alla nostra vista, udito ec. in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell' ordinario ecc.>>

(Italo Calvino, Lezioni Americane, Oscar Mondadori, Milano 1993)

martedì 11 dicembre 2012

Giacomo Leopardi



L'intensità lirica e la profondità di pensiero della sua poesia fanno di Giacomo Leopardi il più grande poeta italiano dei tempi moderni. Egli è l'unico grande esponente della  tendenza lirico-sentimentle del Romanticismo italiano: isolato quindi rispetto al clima culturale del suo tempo, dominato dal Romanticismo realistico e manzoniano, ma al contempo l'interprete più alto del soggettivismo sentimentale che caratterizza la nuova sensibilità romantica europea.
La sua poesia è innanzitutto canto lirico, espressione originaria della grande ricchezza del proprio mondo interiore.La raffinatezza e la prefezione formale dei suoi versi rappresentano infatti il superamento lirico della lacerazione che egli costantemente visse tra la propria infelicità sostanziale e l'anelito alla felicità e alla vita.
La sua personalità eroica si erge nella soitudine contro la meschinità del secolo e contro l'avversità della natura,ed approda ad una lucida filosofia che nel dolore cosmico vede affratellati tutti gli uomini e li invita a riconoscere con coraggio il male di vivere e ad unirsi per lottare contro la natura nemica.

Leopardi (1818-1835) Fasi del pessimismo

FASI PESSIMISMO
Al centro del pensiero di Leopardi c'è l'infelicità dell'uomo, che è causata dalla continua aspirazione ad un piacere infinito, impossibile da raggiungere
In una prima fase, ispirandosi alle tesi del Rousseau, Leopardi sostiene che
  •  la" ragione è nemica della natura";
  • la "natura è grande, madre benigna,"essa infatti nutriva gli antichi di" generose illusioni", testimoniate dalla grandezza e semplicità delle loro favole poetiche;
  • La ragione è piccola, ha prodotto la civiltà moderna mediocre e meschina,guidata solo dal calcolome dall'interesse,allontanando gli uomini dalla natura e facendo così crollare i sogni,le illusioni, la stessa poesia a contatto con l'arido vero, portatore di infelicità.
  • L'infelicità odierna è quindi storica,connaturata alla civiltà moderna e risultato dal prevalere della ragione sulla natura:da qui la scoperta del vuoto del presente,della noia, del solido nulla,privo di illusioni e di valori.
  • In una seconda fase(tra il 1823-1825, culminante nelle Operette morali) Leopardi approfondisce la sua teoria,arrivando a conclusioni che rovesciano il pessimismo storico el pessimismo cosmico.La sua riflessione sull'infelicità lo porta a ritenere che il dolore sia connaturato con la condizione umana e non frutto dell'evoluzione storica.Infatti :
  •  l'uomo per natura cerca il piacere, senza poterlo mai raggiungere pienamente poichè il suo desiderio è infinito e quindi inappagabile;
  • così come l'uomo per natura cerca di evitare il dolore senza poterlo comunque sfuggire , poihè la malattia, l'invecchiamento, la morte sono inevitabili.
Si rovescia quindi la concezione della natura, che diventa nemica degli uomini.madre-matrigna che obbedisce unicamente all'inesorabile legge materialistica della creazione-distruzione-riproduzione,assolutamente indifferente alla sorte di qualsiasi essere vivente.
Il dolore assume quindi na dimensioneosmica e solo la morte del globo concluderà la tragedia dell'esistenza.
Al periodo 1818-1822 appartengono le Canzoni di stampo classicistico (All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Ad un vincitore nel gioco del pallone, Nelle nozze della sorella Paolina, Bruto minore, Ultimo canto di Saffo) dai temi ora esistenziali, ora politico-civili.
La base del pensiero è costituita dal “pessimismo storico” che caratterizza la visione leopardiana in questo momento.Le opere di questo periodo sono animate da acri spunti polemici contro l'età presente, inerte e corrotta, incapace di azioni eroiche; a questa polemica si contrappone un'esaltazione delle età antiche, generose e magnanime. La più significativa è Ad Angelo Mai: oltre alla polemica contro l'Italia presente e alla nostalgia dell'antichità, vi compare il motivo del «caro immaginar» e dei «leggiadri sogni», che sono dissolti dalla conoscenza razionale del «vero», che accresce solo il senso del nulla e la noia. Invece, nel Bruto minore e nell'Ultimo canto di Saffo, Leopardi non parla in prima persona, ma delega il discorso poetico a due personaggi dell'antichità, entrambi suicidi, Bruto, l'uccisore di Cesare, e la poetessa greca Saffo.


Contemporaneamente (1819-1821)Leopardi lavora ai Piccoli Idilli.
Etimologia: lat. idyllium , dal greco eidyllion poemetto.
• La sua origine risale all'attività classificatoria dei grammatici alessandrini, che definirono idilli i carmi di Teocrito (III sec. a. C.), intesi come componimenti brevi e umili. Per la natura pastorale della poesia teocritea, oggi il termine indica per lo più bozzetti, idealizzazione nella vita campestre. L'idillio greco (Mosco e Bione), influenzò poeti latini (Tibullo, Ovidio, Egloghe di Virgilio), mentre l'atmosfera dell'idillio classico fornì alcune caratteristiche della poesia bucolica, sviluppata soprattutto nel XVIII sec. Nella letteratura moderna, composizione di varia natura, con forte intonazione serena e sentimentale.

Il pessimismo storico giunge a una svolta: si delinea l'idea di un'umanità infelice non solo per ragioni storiche, ma per una condizione assoluta. Un carattere molto diverso presentano gliIdilli, sia nelle tematiche, intime e autobiografiche, sia nel linguaggio, più colloquiale e di limpida semplicità. creato dall'immaginazione, a partire da sensazioni visive e uditive.
Gli idilli leopardiani prendono spunto da motivi paesistici ed autobiografici, per poi ripiegarsi in meditazioni, ricordi,sensazioni che egli stesso definì"situazioni,affezioni,avventure storiche " dell'animo.
Si tratta di piccoli quadri in cui il poeta  descrive il suo paesaggio interiore.


Fra questi ricordiamo   L'infinito   e Alla luna. In queste liriche due sono i motivi dominanti: il tema dell’infinito, che si concretizza nel desiderio di andare al di là del limite, verso una pura immensità, verso una vita autentica e felice; il tema del ricordo, il quale dà all’uomo il senso di continuità fra passato e presente e gli permette di esercitare la facoltà poetica più importante, cioè l’immaginazione.
Le Operette morali
Chiusa la stagione delle canzoni e degli idilli, comincia per Leopardi un silenzio poetico che durerà fino alla primavera del '28. Egli stesso lamenta la fine delle illusioni giovanili, lo sprofondare in uno stato d'animo di aridità e di gelo, che gli impedisce ogni moto dell'immaginazione e del sentimento. Per questo intende dedicarsi soltanto all'investigazione dell'«arido vero». Da questa disposizione nascono le Operette morali, quasi tutte composte nel 1824, di ritorno da Roma, dopo la delusione subita nel suo primo contatto con la realtà esterna alla «prigione» di Recanati. Le Operette moralisono prose di argomento filosofico. Leopardi vi espone il “sistema” da lui elaborato, attingendo al vasto materiale accumulato nello Zibaldone. Ma non lo espone in forma sistematica, bensì attraverso una serie di invenzioni fantastiche, miti, allegorie, paradossi, apologhi, veri e propri canti lirici in prosa. Molte delle operette sono dialoghi, i cui interlocutori sono creature immaginose, personificazioni, personaggi mitici o favolosi; in altri casi si tratta di personaggi storici, oppure di personaggi storici mescolati con esseri bizzarri o fantastici. In alcune operette l'interlocutore principale è proiezione dell'autore stesso. Anche le invenzioni più aeree si concentrano intorno ai temi fondamentali del pessimismo: l'infelicità inevitabile dell'uomo, l'impossibilità del piacere, la noia, il dolore, i mali materiali che affliggono l'umanità.. In particolare, esse segnano il passaggio dal pessimismo storico (secondo cui l’uomo e la ragione sono causa dell’umana infelicità) al pessimismo cosmico (che, al contrario, reputa la Natura colpevole delle umane sofferenze). Fra queste si ricordano il Dialogo della Natura e di un Islandese, il Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, il Dialogo di Tristano e di un Amico.


I grandi idilli
Il 2 maggio 1828 Leopardi scrive alla sorella Paolina da Pisa: «Ho fatto dei versi quest'aprile, ma versi veramente all'antica, e con quel mio cuore d'una volta». Il lungo periodo di silenzio poetico si è concluso. Il poeta assiste a un «risorgimento» delle sue facoltà di sentire, commuoversi e immaginare. Tornato a Recanati alla fine di quell'anno, non vede interrompersi il felice momento creativo nemmeno nei sedici mesi di «notte orribile» trascorsi nella casa paterna. Questi componimenti riprendono temi, atteggiamenti, linguaggio degli “idilli” del '19-'21: le illusioni e le speranze, proprie della giovinezza, le rimembranze, quadri di vita borghigiana e di natura serena e primaverile, la suggestione di immagini e suoni vaghi e indefiniti, il linguaggio limpido e musicale, lontano dall'aulicità ardita del linguaggio delle canzoni. Questi componimenti non sono la semplice ripresa della poesia di dieci anni prima, nel mezzo si collocano esperienze decisive, la fine delle illusioni giovanili, l'acquisita consapevolezza del «vero», la costruzione di un sistema filosofico fondato su di un pessimismo assoluto. La caratteristica che individua i grandi idilli è un miracoloso equilibrio che si instaura tra due spinte che dovrebbero essere contrastanti, il «caro immaginar» e il «vero».  
Grandi Idilli o Canti pisano- recanatesi (1828-1830): A Silvia, il Canto notturno di un pastoreerrante dell’Asia, Le ricordanze, Il sabato del villaggioIn essi ricorrono : il ricordo di un passato ormai lontano; la poetica del vago e dell’indefinito; il topos leopardiano del colloquio con la luna; il pessimismo cosmico per cui è “funesto a chi nasce il dì natale” (Canto notturno).
L'ultimo Leopardi

L'ultima stagione leopardiana, che si colloca dopo il '30 e dopo l'allontanamento definitivo da Recanati, segna una svolta di grande rilevo rispetto alla poesia precedente. Leopardi appare più orgoglioso di sé, della propria grandezza spirituale, più pronto e combattivo nel diffondere le sue idee, nel contrapporle polemicamente alle tendenze dominanti dell'epoca. L'apertura si verifica anche sul piano umano, interpersonale. Si tratta di una poesia profondamente nuova, lontanissima da quella idillica: il discorso non si basa più sulle immagini vaghe e indefinite, né vi è più il linguaggio limpido e musicale che a quelle immagini si intonava; si ha una poesia nuda, severa, quasi priva di immagini sensibili; vi compaiono atteggiamenti energici, combattivi, eroici; il linguaggio si fa aspro, antimusicale, la sintassi complessa e spezzata. Alla base di una simile poesia si può individuare una vera e propria «nuova poetica», diversa da quella del vago e indefinito, ancora seguita nella stagione dei grandi idilli. La critica leopardiana si indirizza contro tutte le ideologie ottimistiche che esaltano il progresso e profetizzano un miglioramento indefinito della vita degli uomini, grazie alle nuove scienze sociali ed economiche e alle scoperte della tecnologia moderna; bersaglio polemico sono inoltre le tendenze di tipo spiritualistico e neocattolico che si vanno sempre più affermando nel periodo della Restaurazione. A queste ideologie Leopardi contrappone le proprie concezioni pessimistiche che escludono ogni miglioramento della condizione umana. Questa polemica è condotta attraverso varie opere. La Palinodia al marchese Gino Capponi è una sorta di satira di sapore pariniano nei confronti di una società moderna e della sua fede nelle conquiste del progresso sociale e tecnologico, che ha la forma di un'ironica ritrattazione (palinodiasignifica appunto “ritrattazione”) 

Fra il 1833 ed il 1835 realizza il cosiddetto Ciclo di Aspasia, includente Amore e morte, Consalvo, Il pensiero dominante, A se stresso, Aspasia.
Il poeta appare affranto ma non rassegnato; vuole rivendicare la sua dignità e grandezza; pertanto l’amore per Aspasia è l’estremo tentativo di affermare il suo “diritto alla felicità”. Appartengono agli ultimi anni, trascorsi sempre più ansiosamente nell’attesa della morte, quale liberazione dalle sofferenze, Il tramonto della luna (1836) e La ginestra (1836).Quest’ultima è la summa della meditazione poetica dell’ultimo Leopardi; è un messaggio agli uomini, affinché, in modo solidale e fraterno, si coalizzino contro la Natura Malvagia. Molte riflessioni di Leopardi sono confluite nelleZibaldone (I ediz. 1898) : si tratta di appunti su varie materie, dalla filologia alla politica, dalla letteratura alla filosofia. In particolare vi è spiegata la sua ricorrente teoria del piacere, secondo cui l’uomo ha in sé un desiderio di piacere infinito, che, in quanto tale, è irrealizzabile; pertanto, se prova piacere, esso può essere solo temporaneo, in quanto dovuto ad una momentanea cessazione del dolore. La produzione leopardiana è vasta e problematica ;accompagna l’evoluzione di pensiero del poeta che, negli ultimi anni della sua vita, nonostante la definitiva caduta di ogni illusione, afferma l’umana dignità ed il desiderio di un’esistenza più stabile e civile. Elemento cardine della sua ideologia resta comunque la concezione materialistica e pessimistica dell’uomo, inevitabilmente destinato all’infelicità.

venerdì 7 dicembre 2012

Pietro Citati, Leopardi

L'ultimo libro di Pietro Citati, Leopardi, appena pubblicato da Mondadori, si presenta come una monografia critica che appartiene alla migliore tradizione della saggistica letteraria Italiana, dato che il critico interpreta e spiega con grande capacità di analisi l’opera poetica e filosofica del poeta e filosofo recanatese.