Siamo su Dienneti

giovedì 20 dicembre 2012

La ginestra o il fiore del deserto





Qui su l'arida schiena 
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De' tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de' mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de' potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
(Giacomo Leopardi 19° secolo)

Nel 1836 Leopardi si trova a Napoli da tre anni e compone la sua poesia La ginestra o il fiore del deserto a Torre del Greco, da dove vede il Vesuvio che nel 79 d.C aveva distrutto Pompei ed Ercolano. Questa visione storica porta Leopardi a una riflessione sul presente, a una critica del suo tempo, ma anche a una nuova indagine filosofica sul tema della morte, della catastrofe, del tragico destino umano che trascende le epoche storiche e accomuna tutti. Dal componimento emerge anche l'antiantropocentrismo di Leopardi, già presente nelle Operette Morali: l'uomo, che si crede al centro dell'universo, è in realtà soltanto una delle tante specie che ne fanno parte. Nella quinta stanza della Ginestra si sviluppa il meraviglioso paragone tra la distruzione della raffinata civiltà di Pompei ed Ercolano e delle formiche schiacciate dal cadere di un frutto a terra. Leopardi smentisce così ogni forma retorica del progresso umano. Ma di fronte a questo destino di catastrofe si annuncia un'unione di tutte le specie nella comune consapevolezza di un destino che tutte le comprende. L'uomo è destinato ad essere sconfitto nella sua guerra contro la natura. Questa può "annichilare" tutto il genere umano, e distruggere tutte le civiltà e le speranze, ma matrigna e terribile produce anche il suo contrario, il suo rimedio che è incarnato nel fiore del deserto, la ginestra. Di fronte al deserto, alla perdita di ogni speranza e all'impossibilità di una prospettiva per il futuro si sparge il suo profumo, così la scrittura poetica nasce dall'apparir dell'"arido vero", ma mantiene intatta la sua fragranza. In questi trecento versi Leopardi riflette sul destino dell'umanità, sulla sua presenza sul pianeta e la dipinge come umana compagnia, al di là di ogni speranza e azione.

venerdì 14 dicembre 2012

A SILVIA

Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore.
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.

 “A Silvia” è una canzone libera costituita da versi endecasillabi e settenari e da un numero variabile di stanze. In questa poesia, scritta a Pisa nel 1828, Silvia, più che identificarsi in Teresa Fattorini, è simbolo dell’adolescenza, periodo della vita pieno di innocenza, di timidezza, di sogni e fantasie, di speranze per l’avvenire. Queste qualità si rivelano nelle espressioni “occhi ridenti e fuggitivi”, “lieta e pensosa” ma l’aggettivo “pensosa” è la chiave che permette al poeta di dare una diversa impostazione al tono del suo canto. Quei “pensieri soavi” di “un vago avvenir” sono stati stroncati da un male incurabile che ha portato Silvia alla morte prematura e le ha impedito di raggiungere “il fior degli anni tuoi”. Al poeta, che allora si lasciava trasportare dai sogni, il destino ha negato anche la giovinezza, ora non gli rimane che piangere per quella speranza che non si è mai realizzata. Leopardi, in questo Grande Idillio, si dimostra convinto che le speranze di tutti gli uomini cadano di fronte alla cruda realtà della vita e che non resti loro altro che la sconsolata attesa della morte (pessimismo cosmico). Anche in questa lirica parti descrittive ( che seguono l’ordine dell’immaginazione e del ricordo anziché della logica) e riflessive si alternano sul piano del passato e del presente, dei ricordi e delle riflessioni.

Sempre più in Leopardi matura la convinzione del dissidio tra i sogni della gioventù e la cruda realtà dell’età matura. Egli vede la giovinezza come un mito, un periodo della vita non solo sua, ma di tutti gli uomini, intessuto di sogni e di speranze che l’età matura distrugge. “A Silvia” si regge su un processo di generalizzazione o di simbolizzazione, per cui un fatto contingente suggerisce al poeta una meditazione più vasta, viene preso a simbolo di una caratteristica essenziale, della natura umana. La disillusione, che prima era limitata al sentimento della propria infelicità personale, ora, dopo il 1828, è diventata certezza dell’infelicità universale. La speranza caduta è rappresentata con immagini che ne mettono in risalto la irrevocabilità. Il ricordo della giovinezza con le sue illusioni non ricorre più nel pensiero del poeta come una lieta memoria di un’età felice, ma appare come l’amara riprova di un beffardo inganno che la “natura matrigna” gioca ai mortali. Con i Grandi Idilli, egli abbandona la lirica dell’immaginazione per creare una poesia del sentimento. “La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento” è la frase scritta nello Zibaldone nel 1828. La poesia diventa possibile solo attraverso il ricordo, attraverso la commozione che nasce dal contrasto tra il vuoto della vita adulta e le speranze della giovinezza. Il presente, il reale sono meschini e deludenti, quindi le sensazioni poetiche non derivano immediatamente dalle cose in sé, ma dall’immagine che abbiamo ricevuto nella fanciullezza e che possiamo ricordare. La poesia per Leopardi è quindi “rimembranza“ di come nella giovinezza appaiono le cose, cioè vaste e indefinite. In questo Canto gli elementi fisici trasfigurati dall’immaginazione costituiscono l’avvio del processo poetico: essi stimolano in Leopardi il flusso dei pensieri e dei sentimenti. Le rime varie, le numerose allitterazioni e assonanze creano un ritmo musicale fluido e scorrevole. Le figure retoriche, gli arcaismi e i latinismi arricchiscono un linguaggio già ricercato.

giovedì 13 dicembre 2012

L'INFINITO

Manoscritto

L'infinito è una delle più celebri poesie di Leopardi, si trova nella raccolta degli Idilli, ed è stata composta nel 1819. Con il termine idillio il poeta si richiama alla tradizione poetica classica di Teocrito e dei poeti alessandrini.Il termine" idillio"deriva dal greco eidyllion che  significa piccola immagine , quadretto,e dunque poesia breve .Il vocabolo passò già nella Grecia antica a indicare un genere di poesia bucolica, agreste , in cui l'autenticità della vita di campagna viene contrapposta alle difficoltà  della vita cittadina.Così paradossalmente il senso del limite, la visione costretta sono alla base dell'Infinito.
Nel componimento ci si trova davanti a una doppia immagine: quella degli occhi, limitata e sbarrata, e un'immagine virtuale, che "nel pensier si finge". L'immagine creata dal poeta è così forte e intensa che per poco il suo animo non si spaventa. In tutta la poesia è presente un passaggio tra ciò che vediamo e sentiamo e ciò che immaginiamo, ricordiamo e presentiamo. Questo continuo spostamento tra piano reale e piano fittizio spinge il soggetto all'estremo limite delle sue facoltà razionali. Ciò ricorda a Leopardi l'immagine di un naufragio o della morte stessa.

Stile dell'opera 
Questa poesia si compone di quindici versi endecasillabi, interrotti da numerosi enjambements, che idealmente ampliano il significato di un periodo annullando la pausa del ritmo. L'Infinito, infatti, si compone di quattro lunghi periodi, di cui solo il primo e l'ultimo terminano alla fine di un verso. Il gioco di allitterazioni ed assonanze, poi, regala alla composizione una musicalità interiore, in tema con l'argomento trattato.
L'uso di termini vaghi serve a dare una sensazione di indefinito spazio-temporale che è necessaria a concentrarsi sull'io, e che sollecita l'immaginazione del lettore. È da notare l'impiego di dimostrativi come "questo" o "quello", tesi a descrivere la lontananza dell'oggetto sul piano soggettivo e non su quello oggettivo.
L'autore si serve anche di numerose figure retoriche per sottolineare la musicalità del componimento: iperbati, e metafore danno al componimento un'espressività unica e ammirevole.

Significato del componimento 

L' idillio si configura come uno studio visivo-prospettico degli elementi del paesaggio per produrre nel lettore la suggestione "dell' Infinito". La vaghezza del linguaggio, basata sull' uso di parole di significato indeterminato, le quali, più che precisare le cose secondo le categorie di spazio e di tempo, ne sfumano i contorni, e con il caratteristico vocabolario leopardiano (ermo, interminati, sovrumano, ecc..) producono quella poesia dell' indefinito che è spesso funzionale a quella dell' infinito.
Nell'Infinito Leopardi si concentra decisamente sull'interiorità, sul proprio io, e lo rapporta ad una realtà spaziale e fisica, in modo da arrivare a ricercare l'Infinito. L'esercizio poetico, dunque, si pone come superamento di ogni capacità percettiva, di cui la natura è il limite (rappresentato dalla siepe). Tra la minaccia del silenzio (e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo, ove per poco / il cor non si spaura versi dal 5 all'8) e la sonorità della natura (E come il vento / odo stormir tra queste piante, versi 8 e 9), il pensiero afferra l'inafferrabile universalità dell'Infinito, superando la contingenza di ciò che ci circonda, che è l'esperienza fortemente voluta dall'autore.
Il poeta, seduto davanti ad una siepe, immagina oltre questa spazi interminabili, che vanno oltre anche la linea dell'orizzonte che la siepe in realtà nascondeva. Richiamato alla realtà da un rumore, da una sensazione uditiva, estende il suo fantasticare anche nell'immensità del tempo. L'Infinito, dunque, ha una duplice valenza: spaziale e temporale.
L'Infinito, nella visione leopardiana, non è un infinito reale, ma è frutto dell'immaginazione dell'uomo e, quindi, da trattare in senso metafisico. Esso rappresenta quello slancio vitale e quella tensione verso la felicità connaturati ad ogni uomo, diventando in questo modo il principio stesso del piacere. L'esperienza dell'Infinito è un'esperienza duplice, che porta chi la compie ad essere in bilico tra la perdità di sé stesso (Così tra questa / immensità s'annega il pensier mio versi 13 e 14) e il piacere che da ciò deriva (e il naufragar m'è dolce in questo mare verso 15).
Per l'autore il desiderio di piacere è destinato a rinnovarsi; ricercando sempre nuove sensazioni, scontrandosi inevitabilmente con il carattere provvisorio della realtà, per terminare al momento della morte. Secondo questa teoria (teoria del piacere), espressa nello Zibaldone, l'uomo non si può appagare di piaceri finiti, ma ha necessità di piaceri infiniti nel numero, nella durata e nell'estensione: tali piaceri, però, non sono possibili nell'esperienza umana. Questo limite, tuttavia, non persiste nel campo dell'immaginazione, che diventa una via d'accesso ad un sentimento di piacere (espresso nell'ultimo verso) nella fusione con l'infinità del mare dell'essere.
È importante notare, tuttavia, che l'infinito leopardiano non è simile a quello di altri poeti romantici, in cui esso era straniamento dalla realtà per mezzo della semplice fuga nell'irrazionalità e nel sogno: la scoperta e l'esperienza dell'Infinito sono processi immaginativi sottoposti al controllo razionale. Il soggetto, cioè, crea consapevolmente il contrasto tra ciò che è limitato e ciò che è illimitato (l'ostacolo e l'infinito spaziale), e tra ciò che è contingente e ciò che è eterno.
Tale considerazione ci porta a contemplare quello che è il pessimismo dell'autore: egli è consapevole della vanità del suo tendere, sa che tutto è frutto della sua immaginazione, per quanto questa situazione sia dolce.


Analisi del componimento
Tutto l’idillio è dominato, sia dal punto di vista stilistico che da quello grammaticale-sintattico, dalla giustapposizione ed accostamento di elementi, che fa da pendant ad una struttura distesamente paratattica, basata cioè sulla coordinazione, del discorso: nei vv. 1-2 "quest’ermo colle / E questa siepe", dove si nota anche lo zeugma nella concordanza tra i due termini e "Sempre caro", nel v. 4, "sedendo e mirando", che mette in relazione i due gerundi nei quali è condensata la situazione da cui origina il testo poetico: l’atto di sedere e di guardare al di là della siepe; nei vv. 5-6, dove, all’enumerazione di oggetti retti da "io nel mio pensier mi fingo", posticipato al v. successivo secondo una costruzione molto frequente nella poesia leopardiana, si accompagna l’uso dell’allitterazione in "s" ("Spazi... sovrumani / Silenzi, e profondissima"), e gli enjambement consecutivi dei vv. 4-5 e 5-6.
Il v. 8 fa da spartiacque tra la prima parte, dominata dalla descrizione, e la seconda, dove il discorso prende un andamento più interiore e si arricchisce via via di quei significati che sono il risultato del convergere dei motivi che sono tipici del pensiero leopardiano contemporaneo: la similitudine con la natura ("E come il vento...") e il tema del ricordo che dà luogo all’enunerazione più lunga del componimento, quella dei vv. 11-13: "e mi sovvien l’eterno, / E le morti stagioni, e la presente / E viva, e il suon di lei", dove balza all’occhio come la parola "silenzio", che al v. 6 si trovava correlata a "profondissima quiete", è ora messa in relazione con "voce" e che il termine "infinito", che dà il titolo all’idillio apre il v. 10 come aggettivo concordato con silenzio mentre in chiusa Leopardi preferisce avvalersi del sostantivo "immensità".
L’enumerazione dei vv. 11-13 dà luogo, tra i vv. 12-13 anche all’anafora di "E", che richiama quella del v. 2 e viene richiamata ancora al v. 15. Molto misurata è la poesia nell’uso degli aggettivi, quasi sempre attinenti alla sfera dell’indeterminato o di grado superlativo ("ultimo", nel senso per esempio di "estremo", "interminati", "sovrumani", "profondissima", dove la quiete acquista un’estensione spaziale che completa il precedente "sovrumani spazi", "infinito", "eterno"). Spiccano pertanto il "caro" del v. 1 e il "dolce" del v. 15 attraverso i quali si compie la parabola dello straniamento tracciata nell’"Infinito": il colle e la siepe, schermo materiale e opaco, si dissolvono lasciando il posto al mare dell’immensità dove il pensiero naufraga come in un abbraccio con la natura e con i ricordi; mentre tutto interno a questo percorso è l’accostamento tra "morte stagioni" e "viva" dei vv. 12-13, specchio dell’opposizione tra il passato e il presente.


Giacomo Leopardi, che Calvino aveva scelto come autore che nella sua poetica poco concede all'esattezza, si rivela invece un decisivo testimone a favore. Infatti il poeta del vago può essere solo il poeta della precisione, che sa cogliere la sensazione più sottile con occhio, orecchio, mano pronti e sicuri.
Per specificare il significato del termine vago nella lingua italiana occorre considerare come questa parola porti con sé un'idea di movimento e mutevolezza, che s'associa tanto all' incerto e all' indefinito quanto alla grazia e alla piacevolezza.
Ecco i passi dello Zibaldone in cui Leopardi fa l'elogio del vago, elencando situazioni propizie allo stato d'animo dell'"indefinito":
<<...la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov'essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da detta luce, e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov'ella diventi incerta e impedita, e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la detta luce veduta in luogo, oggetto, ec. dov'ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto ec. dov' ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori, e in una loggia parimente ec. quei luoghi dove la luce si confonde ec. ec. colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell' ombra, in modo che ne sieno indorate le cime; il riflesso che produce, per esempio, un vetro colorato su quegli oggetti su cui si riflettono i raggi che passano per detto vetro; tutti quegli oggetti insomma che per diversi materiali e menome circostanze giungono alla nostra vista, udito ec. in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell' ordinario ecc.>>

(Italo Calvino, Lezioni Americane, Oscar Mondadori, Milano 1993)

martedì 11 dicembre 2012

Giacomo Leopardi



L'intensità lirica e la profondità di pensiero della sua poesia fanno di Giacomo Leopardi il più grande poeta italiano dei tempi moderni. Egli è l'unico grande esponente della  tendenza lirico-sentimentle del Romanticismo italiano: isolato quindi rispetto al clima culturale del suo tempo, dominato dal Romanticismo realistico e manzoniano, ma al contempo l'interprete più alto del soggettivismo sentimentale che caratterizza la nuova sensibilità romantica europea.
La sua poesia è innanzitutto canto lirico, espressione originaria della grande ricchezza del proprio mondo interiore.La raffinatezza e la prefezione formale dei suoi versi rappresentano infatti il superamento lirico della lacerazione che egli costantemente visse tra la propria infelicità sostanziale e l'anelito alla felicità e alla vita.
La sua personalità eroica si erge nella soitudine contro la meschinità del secolo e contro l'avversità della natura,ed approda ad una lucida filosofia che nel dolore cosmico vede affratellati tutti gli uomini e li invita a riconoscere con coraggio il male di vivere e ad unirsi per lottare contro la natura nemica.

Leopardi (1818-1835) Fasi del pessimismo

FASI PESSIMISMO
Al centro del pensiero di Leopardi c'è l'infelicità dell'uomo, che è causata dalla continua aspirazione ad un piacere infinito, impossibile da raggiungere
In una prima fase, ispirandosi alle tesi del Rousseau, Leopardi sostiene che
  •  la" ragione è nemica della natura";
  • la "natura è grande, madre benigna,"essa infatti nutriva gli antichi di" generose illusioni", testimoniate dalla grandezza e semplicità delle loro favole poetiche;
  • La ragione è piccola, ha prodotto la civiltà moderna mediocre e meschina,guidata solo dal calcolome dall'interesse,allontanando gli uomini dalla natura e facendo così crollare i sogni,le illusioni, la stessa poesia a contatto con l'arido vero, portatore di infelicità.
  • L'infelicità odierna è quindi storica,connaturata alla civiltà moderna e risultato dal prevalere della ragione sulla natura:da qui la scoperta del vuoto del presente,della noia, del solido nulla,privo di illusioni e di valori.
  • In una seconda fase(tra il 1823-1825, culminante nelle Operette morali) Leopardi approfondisce la sua teoria,arrivando a conclusioni che rovesciano il pessimismo storico el pessimismo cosmico.La sua riflessione sull'infelicità lo porta a ritenere che il dolore sia connaturato con la condizione umana e non frutto dell'evoluzione storica.Infatti :
  •  l'uomo per natura cerca il piacere, senza poterlo mai raggiungere pienamente poichè il suo desiderio è infinito e quindi inappagabile;
  • così come l'uomo per natura cerca di evitare il dolore senza poterlo comunque sfuggire , poihè la malattia, l'invecchiamento, la morte sono inevitabili.
Si rovescia quindi la concezione della natura, che diventa nemica degli uomini.madre-matrigna che obbedisce unicamente all'inesorabile legge materialistica della creazione-distruzione-riproduzione,assolutamente indifferente alla sorte di qualsiasi essere vivente.
Il dolore assume quindi na dimensioneosmica e solo la morte del globo concluderà la tragedia dell'esistenza.
Al periodo 1818-1822 appartengono le Canzoni di stampo classicistico (All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Ad un vincitore nel gioco del pallone, Nelle nozze della sorella Paolina, Bruto minore, Ultimo canto di Saffo) dai temi ora esistenziali, ora politico-civili.
La base del pensiero è costituita dal “pessimismo storico” che caratterizza la visione leopardiana in questo momento.Le opere di questo periodo sono animate da acri spunti polemici contro l'età presente, inerte e corrotta, incapace di azioni eroiche; a questa polemica si contrappone un'esaltazione delle età antiche, generose e magnanime. La più significativa è Ad Angelo Mai: oltre alla polemica contro l'Italia presente e alla nostalgia dell'antichità, vi compare il motivo del «caro immaginar» e dei «leggiadri sogni», che sono dissolti dalla conoscenza razionale del «vero», che accresce solo il senso del nulla e la noia. Invece, nel Bruto minore e nell'Ultimo canto di Saffo, Leopardi non parla in prima persona, ma delega il discorso poetico a due personaggi dell'antichità, entrambi suicidi, Bruto, l'uccisore di Cesare, e la poetessa greca Saffo.


Contemporaneamente (1819-1821)Leopardi lavora ai Piccoli Idilli.
Etimologia: lat. idyllium , dal greco eidyllion poemetto.
• La sua origine risale all'attività classificatoria dei grammatici alessandrini, che definirono idilli i carmi di Teocrito (III sec. a. C.), intesi come componimenti brevi e umili. Per la natura pastorale della poesia teocritea, oggi il termine indica per lo più bozzetti, idealizzazione nella vita campestre. L'idillio greco (Mosco e Bione), influenzò poeti latini (Tibullo, Ovidio, Egloghe di Virgilio), mentre l'atmosfera dell'idillio classico fornì alcune caratteristiche della poesia bucolica, sviluppata soprattutto nel XVIII sec. Nella letteratura moderna, composizione di varia natura, con forte intonazione serena e sentimentale.

Il pessimismo storico giunge a una svolta: si delinea l'idea di un'umanità infelice non solo per ragioni storiche, ma per una condizione assoluta. Un carattere molto diverso presentano gliIdilli, sia nelle tematiche, intime e autobiografiche, sia nel linguaggio, più colloquiale e di limpida semplicità. creato dall'immaginazione, a partire da sensazioni visive e uditive.
Gli idilli leopardiani prendono spunto da motivi paesistici ed autobiografici, per poi ripiegarsi in meditazioni, ricordi,sensazioni che egli stesso definì"situazioni,affezioni,avventure storiche " dell'animo.
Si tratta di piccoli quadri in cui il poeta  descrive il suo paesaggio interiore.


Fra questi ricordiamo   L'infinito   e Alla luna. In queste liriche due sono i motivi dominanti: il tema dell’infinito, che si concretizza nel desiderio di andare al di là del limite, verso una pura immensità, verso una vita autentica e felice; il tema del ricordo, il quale dà all’uomo il senso di continuità fra passato e presente e gli permette di esercitare la facoltà poetica più importante, cioè l’immaginazione.
Le Operette morali
Chiusa la stagione delle canzoni e degli idilli, comincia per Leopardi un silenzio poetico che durerà fino alla primavera del '28. Egli stesso lamenta la fine delle illusioni giovanili, lo sprofondare in uno stato d'animo di aridità e di gelo, che gli impedisce ogni moto dell'immaginazione e del sentimento. Per questo intende dedicarsi soltanto all'investigazione dell'«arido vero». Da questa disposizione nascono le Operette morali, quasi tutte composte nel 1824, di ritorno da Roma, dopo la delusione subita nel suo primo contatto con la realtà esterna alla «prigione» di Recanati. Le Operette moralisono prose di argomento filosofico. Leopardi vi espone il “sistema” da lui elaborato, attingendo al vasto materiale accumulato nello Zibaldone. Ma non lo espone in forma sistematica, bensì attraverso una serie di invenzioni fantastiche, miti, allegorie, paradossi, apologhi, veri e propri canti lirici in prosa. Molte delle operette sono dialoghi, i cui interlocutori sono creature immaginose, personificazioni, personaggi mitici o favolosi; in altri casi si tratta di personaggi storici, oppure di personaggi storici mescolati con esseri bizzarri o fantastici. In alcune operette l'interlocutore principale è proiezione dell'autore stesso. Anche le invenzioni più aeree si concentrano intorno ai temi fondamentali del pessimismo: l'infelicità inevitabile dell'uomo, l'impossibilità del piacere, la noia, il dolore, i mali materiali che affliggono l'umanità.. In particolare, esse segnano il passaggio dal pessimismo storico (secondo cui l’uomo e la ragione sono causa dell’umana infelicità) al pessimismo cosmico (che, al contrario, reputa la Natura colpevole delle umane sofferenze). Fra queste si ricordano il Dialogo della Natura e di un Islandese, il Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, il Dialogo di Tristano e di un Amico.


I grandi idilli
Il 2 maggio 1828 Leopardi scrive alla sorella Paolina da Pisa: «Ho fatto dei versi quest'aprile, ma versi veramente all'antica, e con quel mio cuore d'una volta». Il lungo periodo di silenzio poetico si è concluso. Il poeta assiste a un «risorgimento» delle sue facoltà di sentire, commuoversi e immaginare. Tornato a Recanati alla fine di quell'anno, non vede interrompersi il felice momento creativo nemmeno nei sedici mesi di «notte orribile» trascorsi nella casa paterna. Questi componimenti riprendono temi, atteggiamenti, linguaggio degli “idilli” del '19-'21: le illusioni e le speranze, proprie della giovinezza, le rimembranze, quadri di vita borghigiana e di natura serena e primaverile, la suggestione di immagini e suoni vaghi e indefiniti, il linguaggio limpido e musicale, lontano dall'aulicità ardita del linguaggio delle canzoni. Questi componimenti non sono la semplice ripresa della poesia di dieci anni prima, nel mezzo si collocano esperienze decisive, la fine delle illusioni giovanili, l'acquisita consapevolezza del «vero», la costruzione di un sistema filosofico fondato su di un pessimismo assoluto. La caratteristica che individua i grandi idilli è un miracoloso equilibrio che si instaura tra due spinte che dovrebbero essere contrastanti, il «caro immaginar» e il «vero».  
Grandi Idilli o Canti pisano- recanatesi (1828-1830): A Silvia, il Canto notturno di un pastoreerrante dell’Asia, Le ricordanze, Il sabato del villaggioIn essi ricorrono : il ricordo di un passato ormai lontano; la poetica del vago e dell’indefinito; il topos leopardiano del colloquio con la luna; il pessimismo cosmico per cui è “funesto a chi nasce il dì natale” (Canto notturno).
L'ultimo Leopardi

L'ultima stagione leopardiana, che si colloca dopo il '30 e dopo l'allontanamento definitivo da Recanati, segna una svolta di grande rilevo rispetto alla poesia precedente. Leopardi appare più orgoglioso di sé, della propria grandezza spirituale, più pronto e combattivo nel diffondere le sue idee, nel contrapporle polemicamente alle tendenze dominanti dell'epoca. L'apertura si verifica anche sul piano umano, interpersonale. Si tratta di una poesia profondamente nuova, lontanissima da quella idillica: il discorso non si basa più sulle immagini vaghe e indefinite, né vi è più il linguaggio limpido e musicale che a quelle immagini si intonava; si ha una poesia nuda, severa, quasi priva di immagini sensibili; vi compaiono atteggiamenti energici, combattivi, eroici; il linguaggio si fa aspro, antimusicale, la sintassi complessa e spezzata. Alla base di una simile poesia si può individuare una vera e propria «nuova poetica», diversa da quella del vago e indefinito, ancora seguita nella stagione dei grandi idilli. La critica leopardiana si indirizza contro tutte le ideologie ottimistiche che esaltano il progresso e profetizzano un miglioramento indefinito della vita degli uomini, grazie alle nuove scienze sociali ed economiche e alle scoperte della tecnologia moderna; bersaglio polemico sono inoltre le tendenze di tipo spiritualistico e neocattolico che si vanno sempre più affermando nel periodo della Restaurazione. A queste ideologie Leopardi contrappone le proprie concezioni pessimistiche che escludono ogni miglioramento della condizione umana. Questa polemica è condotta attraverso varie opere. La Palinodia al marchese Gino Capponi è una sorta di satira di sapore pariniano nei confronti di una società moderna e della sua fede nelle conquiste del progresso sociale e tecnologico, che ha la forma di un'ironica ritrattazione (palinodiasignifica appunto “ritrattazione”) 

Fra il 1833 ed il 1835 realizza il cosiddetto Ciclo di Aspasia, includente Amore e morte, Consalvo, Il pensiero dominante, A se stresso, Aspasia.
Il poeta appare affranto ma non rassegnato; vuole rivendicare la sua dignità e grandezza; pertanto l’amore per Aspasia è l’estremo tentativo di affermare il suo “diritto alla felicità”. Appartengono agli ultimi anni, trascorsi sempre più ansiosamente nell’attesa della morte, quale liberazione dalle sofferenze, Il tramonto della luna (1836) e La ginestra (1836).Quest’ultima è la summa della meditazione poetica dell’ultimo Leopardi; è un messaggio agli uomini, affinché, in modo solidale e fraterno, si coalizzino contro la Natura Malvagia. Molte riflessioni di Leopardi sono confluite nelleZibaldone (I ediz. 1898) : si tratta di appunti su varie materie, dalla filologia alla politica, dalla letteratura alla filosofia. In particolare vi è spiegata la sua ricorrente teoria del piacere, secondo cui l’uomo ha in sé un desiderio di piacere infinito, che, in quanto tale, è irrealizzabile; pertanto, se prova piacere, esso può essere solo temporaneo, in quanto dovuto ad una momentanea cessazione del dolore. La produzione leopardiana è vasta e problematica ;accompagna l’evoluzione di pensiero del poeta che, negli ultimi anni della sua vita, nonostante la definitiva caduta di ogni illusione, afferma l’umana dignità ed il desiderio di un’esistenza più stabile e civile. Elemento cardine della sua ideologia resta comunque la concezione materialistica e pessimistica dell’uomo, inevitabilmente destinato all’infelicità.

venerdì 7 dicembre 2012

Pietro Citati, Leopardi

L'ultimo libro di Pietro Citati, Leopardi, appena pubblicato da Mondadori, si presenta come una monografia critica che appartiene alla migliore tradizione della saggistica letteraria Italiana, dato che il critico interpreta e spiega con grande capacità di analisi l’opera poetica e filosofica del poeta e filosofo recanatese.

lunedì 29 ottobre 2012

Scritture


Il tema della violenza contro le donne è ancora oggi drammaticamente attuale:che cosa , però,ti pare che sia cambiato dall'età di Dante? Partendo dai documenti (fotocopie) , scrivi un breve saggio su questo tema.

Rosaria Lo Pò

La brutalità che fa dell’uomo una belva, è in crescita e si va sperimentando quotidianamente: omicidi , rapine, stupri, sequestri di persona e  varie forme di nazismo e razzismo , che suonano come insulto alle più  elementari forme di vita civile, in una società  che di civile porta soltanto il nome. La figura della belva è identificata nella maggior parte dei casi in quella maschile , quando la vediamo artefice di una violenza che sconvolge, non in casi rari, la vita di una donna. Veicolo molto potente della violenza è la televisione, il che è provato: se in televisione viene trasmessa l’immagine di una violenza, subito aumentano i casi che la vogliono protagonista. Infatti l’immagine si associa per via mnemonica e semantica, e di conseguenza evoca altra violenza. Il mondo femminile si è sempre ritrovato a lottare per abolire una società che dispone dell’esaltazione del mondo maschile a danno del gentile sesso. Nella società patriarcale e maschilista del Medioevo , da una parte la donna veniva considerata come un soggetto da custodire , da allontanare dalla vita pubblica e da relegare nello spazio chiuso delle mura domestiche o di quelle del convento; dall’altra parte , la donna, poiché segnata dal peccato di Eva , era considerata potenzialmente pericolosa e per questo doveva essere controllata, sorvegliata ed eventualmente segregata. Una delle prime sostenitrici dell'emancipazione femminile fu  Olympe de Gouges (che, con la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina del 1791, dedicato a Maria Antonietta) pose la società a lei contemporanea di fronte al ruolo negato nello spazio pubblico alle donne:era giunta l’ora di effettuare una rivoluzione nei modi di vivere delle donne – era giunta l’ora di restituirle la dignità perduta - e di far sì che esse, in quanto parte della specie umana, operino riformando se stesse per riformare il mondo. E questo fu solo l’inizio di una “guerra” che si protrasse nei secoli e la donna “intraprendente” fu il suo frutto: hanno dimostrato di non voler essere un corpo a disposizione di altri, hanno sfondato quel muro che le privava della propria libertà prefissandosi degli obiettivi che in passato vennero derisi , perché provenienti da una volontà femminile. Il dominio sul corpo della donna , ahimè, non è venuto mai meno. Nonostante, nel XXI secolo, la donna ricopra ruoli decisivi ponendosi a capo di diverse istituzioni , quello che fa paura è come venga ancora sovrastata in extremis dalla mentalità preclusa e longeva di un padre, di un marito , di un figlio “uomini poi, a mal più ch’a ben usi”. La violenza che le viene esercitata è alimentata dai valori della forza, della competitività, dell’aggressività, che hanno sostituito i valori della democrazia , dell’uguaglianza e del rispetto. E proprio ai giorni nostri, si parla di “femminicidio” una furia che se non sconvolge addirittura uccide: 101 sono i volti ormai svaniti delle donne vittime di abusi , di stalking conclusisi in tragedia. I quotidiani vengono bombardati costantemente da articoli di cronaca riportanti omicidi di donne che decidono di interrompere il rapporto coniugale perché stanche di sottostare a un comportamento ossessivo e possessivo e per questo vengono punite con del cherosene gettato addosso tramite un annaffiatoio e date a fuoco ; ragazze provenienti da paesi orientali affascinate dalle usanze occidentali capiscono di essere cresciute con degli ideali, dei valori che in realtà non sono mai stati loro e vengono picchiate, bastonate fino alla morte, perché “Lei” non è nessuno per decidere cosa volere; bambine che subiscono l’atroce violenza dalla persona che non potranno chiamare “Papà”, perché un Papà e, prima ancora un Uomo non è capace di un simile oltraggio. Nel mondo , ogni 8 minuti , viene uccisa una donna – è emerso da un’indagine relativa al 2003- l’Italia è al 34esimo posto su 40, con 6,57 assassini per milione. Nel 2005 si è registrato in Italia un omicidio in famiglia ogni 2 giorni e in 7casi su 10 la vittima è una donna. La violenza domestica ,a livello mondiale, occupa la prima posizione riguardante le cause di morte per le donne tra i 16 e i 44 anni: “il marito , il fidanzato l’amante a volte anche i figli, uccidono più del cancro, degli incidenti stradali e delle guerre.”E’ necessario ,pertanto, rifondare la morale della propria soggettività e diventare davvero una società moderna vivendo alla grande l’esperienza della maturazione collettiva.


Giuseppe Samperi

In un momento come questo, in cui una donna  ha molta difficoltà a riconoscersi nell’immagine femminile offerta dai media (almeno in Italia), l’atteggiamento di Dante nei confronti di Beatrice rappresenta davvero uno spiraglio di luce. Come si diceva sopra, Beatrice è una figura positiva e salvifica; accorgendosi dello stato di traviamento in cui si trova Dante  è scesa nel Limbo per mandare Virgilio in suo soccorso, l’ha atteso nel Paradiso Terrestre e, dopo avergli rimproverato i suoi errori, l’ha guidato verso la salvezza. Non si intende qui discutere il problema della condizione femminile o forzare la posizione di Dante sugli schemi che ci sono familiari della parità tra uomo e donna, è tuttavia innegabile che dalla sua opera emerge un atteggiamento nei confronti del gentil sesso diverso da quello più diffuso suoi tempi. Da un lato è vero che apprezzava le donne virtuose in senso tradizionale, quelle che vegliano “ allo studio della culla” o  che si vestono e si ornano in modo modesto. E’ anche vero però che per Dante la donna non è relegata unicamente nella sfera della famiglia, dell’amore e della sensualità, ma può partecipare anche alla vita “filosofica” e culturale di uno stato. Tra i motivi che rendono attuale la visione dantesca della donna ce n’è  anche uno tragico; Dante manifesta infatti anche una grande sensibilità nei confronti di coloro che sono state vittima della violenza maschile. Dante tratta questo argomento con estrema delicatezza,  confermando in alcuni celebri passaggi del poema, il fatto che la condizione delle donne le esponeva all’abuso anche quando non violavano alcuna regola.  Utilizzate come merce di scambio in alleanze matrimoniali che certamente le penalizzavano più dei mariti,  obbligate a sposare uomini più anziani,  spesso violenti e desiderosi  soltanto di impadronirsi della dote, disposti a sbarazzarsi di loro quando non servivano più o addirittura rapite dal convento in cui erano entrate di loro spontanea volontà per essere costrette al matrimonio, le donne erano private del diritto di scegliere autonomamente il loro destino. Infatti le figure di Costanza d’Altavilla e Piccarda Donati  rivelano, senza necessità di molte parole, la sofferenza dell’”altra metà del cielo” e  Dante ne rivela la tragedia umana  tratteggiandole con  versi straordinariamente efficaci ( ad esempio : Uomini poi, a mal più ch’a bene usi, fuor mi rapiron de la dolce chiostra: Iddio si sa qual poi mia vita fusi. (Pd. III, 106-108).
Leggendo la cronaca si noterà che questi episodi sono ancora numerosi e confermano il fatto che la violenza contro le donne viene commessa molto spesso all’interno della famiglia dove spesso resta impunita oggi come allora. E’ importante sottolineare  il ruolo della letteratura nel miglioramento della condizione femminile: da semplici fruitici  di testi scritti dagli uomini , le donne hanno iniziato a scrivere,  superando grandi difficoltà tra le quali le scarse opportunità di accesso agli studi e la mancanza di spazio e tempo per scrivere, così facendo la donna soprattutto negli ultimi due secoli si è dotata  di una voce che prima non aveva  se non in misura molto limitata. 
Un’ultima considerazione riguarda il confronto fra l’immagine della donna che emerge dalla Divina Commedia e quella che ci viene imposta dai media. Come si diceva all’inizio del paragrafo, è singolare il fatto che il medioevale Dante sia  riuscito a trasmettere una grande considerazione dell’intelligenza e della dignità delle  donne, mentre i media all’inizio del XXI secolo, epoca di dichiarata parità almeno in alcuni paesi del mondo,  le trattano come oggetti sessuali mettendone in mostra solo le forme. Fortunatamente invece l’atteggiamento di Dante, quello che egli ha voluto trasmettere al suo pubblico, è ispirato dalla convinzione profonda che la ragione sia una prerogativa comune di tutti gli esseri umani, per lo meno quelli che vogliono esercitarla e intendono fare sforzi per apprendere. Le donne non sono escluse dall’uso della ragione e quindi condividono con gli uomini il dono più importante che Dio ha fatto all’umanità intera.

lunedì 22 ottobre 2012

LE GRAZIE

Antonio Canova
1813-1818
La concezione della storia intesa come forma laica di perennità e "la religione delle illusioni",già sviluppate nei Sepolcri ,ritornano nel poema mitologico Le Grazie, ma rivissute senza la passionalità del carme:nei Sepolcri il fondamento della civiltà è cercato nelle tradizioni e nelle glorie di un popolo, nel poema sono invece la bellezza e le arti a ingentilire l'uomo.
La genesi
Dedicate allo scultore neoclassico Antonio Canova, Le Grazie nascono dalla libera rielaborazione di spunti tratti dalla poesia neoclassica.
L’ultima opera del Foscolo non conobbe una stesura definitiva, ma resterà allo stato frammentario. Il poeta, che lavora a questa, che è la sua creazione poetica più dichiaratamente (fin dalla dedica al Canova) “neoclassica”, a partire dal 1811, continuerà a limare i perfetti endecasillabi, a modificare e spostare episodi e sezioni, a cercare una architettura generale in cui inserire i quadri staccati tra loro, ma quanto ci è giunto del poemetto resta un insieme di luminosi frammenti, privi di una coesione complessiva, quasi una raccolta di tessere di un mosaico di cui si intravede un disegno complessivo, che perт le lacune non consentono di cogliere ed interpretare pienamente, conferendogli il fascino misterioso dell’incompiuto. Questa situazione ha anche condizionato le valutazioni critiche sul poemetto e sul posto da esso occupato nell’insieme della produzione del poeta di Zacinto. Due sono state le interpretazioni storicamente più importanti dell’opera poetica del Foscolo, ed il loro netto divergere si puт connettere con due contrapposte concezioni poetiche: sono quella ottocentesca del De Sanctis e quella novecentesca del Croce. Il primo critico dispone le opere foscoliane su una parabola: sull’arco ascendente egli colloca, considerando che ciascuna testimoni rispetto alla precedente un miglioramento artistico, l’Ortis, i Sonetti e le Odi, seguite, all’acme della parabola, dal capolavoro Dei Sepolcri; mentre pone sulla sezione discendente (pur apprezzandone le soluzioni formali) il poemetto delle Grazie, commentando come in esse predomini l’artista, mentre sia quasi assente il poeta. Se noi riflettiamo sul significato che il critico napoletano dа a questi termini ed in particolare alla connotazione negativa che attribuisce ad “artista” (come colui che ha per motto ARS GRATIA ARTIS, cioи l’idea dell’arte per l’arte, e non come il vero poeta ARS GRATIA VITAE) possiamo valutare il peso negativo, o almeno limitativo, di tale giudizio. Non dimentichiamo poi che la critica dell’Ottocento ama le opere organiche e non è ancora abituata al frammento, diversamente dal 900: ed infatti il critico novecentesco, Croce, propone, per le opere foscoliane, una retta ascendente, e colloca nel punto più alto, considerandole quindi il capolavoro, proprio le Grazie, cui l’incompiutezza toglierebbe l’aspetto allotrio della “struttura”, da lui considerata “non poesia”, per lasciare soltanto, luminosa nei suoi preziosi frammenti, la poesia allo stato puro; la frammentarietа e l’incompletezza, lungi dal costituire un difetto, rappresentano proprio il pregio del poemetto. Tale posizione и ripresa ed approfondita dal De Robertis ed in generale evidente risulta l’apprezzamento per i frammenti del poemetto da parte dei poeti e dei critici ermetici. La critica successiva, pur continuando a privilegiare il carme dei Sepolcri, ha riletto con maggior attenzione le Grazie, riconoscendo in esse il fiore supremo, se pur fragile ed esile, del neoclassicimo europeo (su questa posizione si trovano, fra gli altri, il Fubini ed il Binni) e le hanno considerate come l’approdo coerente di un percorso che trova analogie in altri poeti di altre letterature (ed in particolare nel Goethe, nel suo procedere dal Werther all’ultima redazione del Faust).
Ritengo utile, prima di esaminare l’impostazione, le tematiche e le strutture formali dell’opera, individuare tale percorso, partendo dal 1803, quando giа il poeta espone una prima idea del poemetto.
All’inizio dell’Ottocento, nella fervida vita culturale milanese (nella cittа, oltre all’arrivo degli esuli napoletani e del Monti ed alla presenza del giovane Manzoni, si trovava Stendhal e vi approdava spesso, per gli spettacoli della Scala, Byron) si dibatteva molto, nell’ambito della corrente dominante del Neoclassicismo, sulla traduzione dei classici. Monti stava lavorando alla sua bella infedele, la versione capolavoro dell’Iliade, ed alla traduzione dal latino delle Satire di Persio, dal francese della Pulzella d’Orlйans di Voltaire e lo stesso Foscolo, mentre traduceva libri di Omero e la Chioma di Berenice da Callimaco-Catullo, giа progettava un Inno alle Grazie, suggerito anche dall’attivitа artistica del Canova. Sull’idea di traduzione Monti e Foscolo erano decisamente su posizioni contrastanti, in quanto il primo propendeva per la traduzione artistica, il secondo per quella filologica: entrambi comunque erano interessati al mondo antico ed al classicismo (e le Grazie saranno proprio l’opera simbolo e l’esito piщ alto del neoclassicismo italiano). In una nota alla traduzione della Chioma di Berenice il poeta introduceva una interessante nomenclatura, scrivendo, e distinguendoli nettamente fra loro, di passionato e mirabile: col primo termine indicava, in un’opera d’arte, il predominio del sentimento e della passione; col secondo la ricerca dell’armonia e il prevalere del senso del bello e della contemplazione. Ed il percorso complessivo dell’opera creativa del Foscolo и proprio sostanzialmente un itinerario dal primo al secondo atteggiamento.
Chiunque abbia letto Le ultime lettere di Jacopo Ortis ha ben presente la tonalitа dell’opera, il prevalere nel romanzo delle note cupe, tempestose e notturne, il vigore della passione amorosa e patriottica, le tensione verso il suicidio. Un libro sincero ed energico, basato su scottanti esperienze autobiografiche, ma con difetti derivanti dalla giovinezza e dalla passione dell’autore: eccessi di eloquenza, lampi di entusiasmo, esagerazioni di tono, eccesso di iperboli, colori lugubri e cupi del paesaggio, in consonanza con la tempesta interiore. Ma giа si affacciano i successivi temi foscoliani: da un lato i miti della tomba, del tempo distruttore, dall’altro quelli della bellezza serenatrice, della poesia eternatrice; ma si resta in ogni caso nell’ambito del passionato.
Le esperienze immediatamente successive si realizzano in due direzioni (che poi approderanno ai due capolavori della piena maturitа): Sonetti e Odi. Foscolo resta ancora nell’ambito delle forme chiuse, che piщ tardi supererа, approdando alla piщ libera musica dell’endecasillabo sciolto (fino ad allora peraltro giа sperimentato nella tragedia Tieste e nelle traduzioni). I due generi gli servono per provarsi prima ad una specie di sintesi tra i due aspetti, poi ad un prevalere del mirabile. I Sonetti sono, per gli argomenti, collegati strettamente all’Ortis, ma, soprattutto nei quattro maggiori, il poeta giunge ad una armoniosa e placata fusione del tema passionale e di quello contemplativo, assorbendo l’agitazione e la passionalitа residue in una struttura di tersa nitidezza che, senza eliminarne l’intensitа, le purifica ed universalizza. Significativa e quasi simbolica di questo atteggiamento, la conclusione di Alla sera, con il doppio ossimoro.
... e mentre io guardo alla tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge,
Se parole come pace e dorme indicano lo stato d’animo della contemplazione e della calma; rugge e guerrier ci riportano al precedente momento ortisiano; ma attraverso l’accostamento, il poeta ottiene l’effetto di una sintesi tra le due tonalitа, che produce un effetto, tipico del neoclassicismo foscoliano, di equilibrio non statico, ma dinamico, che deve essere continuamente raggiunto e riconquistato.
Al contrario le Odi (che sembrano voler programmaticamente anticipare i temi e le tecniche delle Grazie) segnano un distacco evidente dalle esperienze di vita vissuta, tendono alla astrazione ed alla sublimazione, a costruire un mondo ideale di bellezza ed armonia, in cui le passioni e gli avvenimenti trovano solo un vago riflesso, e sono innalzati in una atmosfera di estatica contemplazione. Ciт si realizza (sfiorando, ma senza cadervi, i rischi dell’estetismo) soprattutto nella seconda ode, All’amica risanata, ove il poeta, dopo aver cantato con disteso vigore e musicale entusiasmo la funzione consolatrice della bellezza femminile, inventa quasi una sua nuova mitologia, innalzando al mondo divino ed eterno, per virtщ della poesia, la donna da lui amata, posta vicino alle donne che gli antichi poeti avevano, col loro canto, trasfigurato in dee.
La tipologia poetica giа presente nei Sonetti и ripresa e confermata nel carme dei Sepolcri, ove si realizza in pieno la fusione tra gli aspetti (altre volte separati e prevalenti di volta in volta) della esperienza passionalmente vissuta e dell’arte rasserenata, dell’agire e del contemplare, del passionato e del mirabile. Le due immagini simboliche di fondo che realizzano il grande chiaroscuro del carme sono il sole e la notte, che si ripresentano, in equilibrio ossimorico, nei punti cruciali, all’inizio, al centro ed al termine. All’inizio il Sole illumina le bellezze del creato e costituisce il primo degli elementi positivi di cui la morte priverа il poeta (le altre sono la natura, le illusioni, la poesia, l’amore); ma subito dopo all’immagine del sole si contrappone quella opposta e complementare della notte dell’oblio ( ... e involve tutte cose l’Oblio nella sua notte...). Al centro del carme l’immagine dell’astro della luce e della vita torna a confronto con l’oscuritа notturna degli ipogei dei cimiteri greci, appena illuminati dalla lampada sepolcrale, dono degli amici che compiangono e ricordano:
Rapian gli amici una favilla al Sole
a illuminar la sotterranea notte...
Appare qui il contrasto dinamico tra le implicazioni vitalistiche e razionali collegate alla parola Sole (con l’iniziale maiuscola a suggerirne le implicazioni) e quelle cupe connesse alla notte: tra luce neoclassica e ombra romantica, con un sostanziale equilibrio tra i due aspetti. 
Nel finale del carme, proprio negli ultimi versi, all’interno della solenne profezia di Cassandra, si delinea ancora l’antitesi fra luce e tenebre, tra il Sole e la cupa vicenda delle sventure umane da esso contemplate; non solo, ma dalla notte reale (l’oscuritа delle tombe e la cecitа di Omero), sorge la luce metaforica della poesia. Il chiaroscuro che abbiamo analizzato sembra proprio indicare un momento di raggiunto equilibrio: e che tale scelta sia ben presente e consapevole nel poeta, sembra confermato dalla ossimorica “notte luminosa” che si accampa nell’episodio di Firenze: 
Lieta dell’aer tuo veste la luna
di luce limpidissima i tuoi colli...
Se dunque i Sepolcri segnano un raggiunto quanto delicato equilibrio tra i due aspetti, con le Grazie si passa invece al deciso prevalere dell’anima neoclassica del Foscolo, si realizza il definitivo approdo al mirabile, al termine di un lungo cammino che partendo infatti dal deciso prevalere della passione, dall’agitazione sentimentale approdante al suicidio delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, passa attraverso il momento di equilibrio tra i due aspetti nei Sepolcri, per approdare infine alla serena contemplazione delle Grazie; anche nella serenitа perт il Foscolo non rinuncia del tutto a riferimenti alla attualitа ed in particolare alle problematiche politiche dell’epoca; resta nel complesso evidente un percorso dalla tensione preromantica alla contemplazione neoclassica di un’opera, che viene cosм a rappresentare l’equivalente letterario della scultura del Canova. 
Armoniosa melodia pittrice
(Primo Inno, a Venere)
Pur nella sostanziale frammentazione, e partendo da un progetto che prevedeva un solo inno (idea ancora confermata in un saggio del ’22, Dissertazione sopra un antico inno alle Grazie), l’insieme di versi endecasillabi sciolti che possediamo, si puт agevolmente suddividere in una struttura tripartita, in tre Inni: A Venere, a Vesta ed a Pallade, ciascuno (specie i primi due) logicamente articolati e ben distinti fra loro anche dallo sfondo in cui sono collocati, rispettivamente la Grecia mitica, la Toscana, l’isola di Atlantide.
Il primo inno и dedicato a Venere (che simboleggia la “bella natura apparente”, chiarisce il poeta), si apre con l’invocazione alle Grazie e con la dedica al Canova, a suggerire un auspicato incontro fra le arti figurative e la poesia, che era un ideale del neoclassicismo. Segue la rievocazione della nascita delle Grazie nelle acque dello Jonio, fra Citera e Zacinto, l’isola natia nostalgicamente rievocata. La madre Venere le trae dal mare perchй possano aiutare gli uomini ad uscire dallo stato ferino e a dare inizio alla vita civile: nasce cosм, col loro contributo, la splendida civiltа della Grecia; nella conclusione il poeta preannuncia il passaggio delle Grazie dalla Grecia all’Italia.
Un passo interessante и dunque il proemio, che il poeta articola in tre settori.
Il primo settore (vv. 1-8) propone l’invocazione alle Grazie, con la richiesta alle tre dee per ottenere una espressione poetica in cui trovino sintesi pittura e musica (“a voi chieggio l’arcana / armoniosa melodia pittrice / della vostra beltа”), e che porti consolazione all’Italia afflitta dalle guerre napoleoniche. Notiamo subito la nitida perfezione degli endecasillabi, che, conservando la marmorea compattezza dei Sepolcri, sembrano assumere in piщ una delicatezza di “sfumato” ed una nuova vibrazione e tonalitа musicale. 
Segue il riferimento autobiografico al luogo in cui il poeta si dedica alla composizione del carme: la prediletta Bellosguardo, immersa nella bellezza delle colline toscane giа cantate al centro dei Sepolcri, ove egli, fuggito dalle delusioni milanesi del fiasco dell’Aiace alla Scala e dalle polemiche con gli intellettuali di quella cittа, si и rifugiato ed ove immagina di innalzare il metaforico altare alle tre dee, ed invita a partecipare al rito sacro l’amico scultore:

Nella convalle tra gli aerei poggi
di Bellosguardo, ov’io cinta d’un fonte
limpido fra le quete ombre di mille
giovinetti cipressi alle tre dee
l’ara innalzo... al vago rito
vieni, o Canova, e agl’inni.

La terza sezione del prologo torna ad una dichiarazione di poetica (sostanzialmente antimontiana - sdegno il verso che suona e che non crea - ) e dopo aver definito Canova artefice di Numi, prospetta una funzione di guida da parte della poesia rispetto alle arti figurative (Apollo come guida di Fidia e di Apelle); e il nome di Fidia ci riporta alla concezione del Winkelmann, teorico riconosciuto del neoclassicismo, che aveva indicato come vertice dell’arte ellenica proprio la ideale, calma e serena bellezza delle sculture fidiache. 
Esaminando questo passo, ci accorgiamo che il poeta ha abbandonato definitivamente le forme chiuse del sonetto e dell’ode, ed è approdato alla forma piщ libera e flessibile dello sciolto, dando al verso tipico della poesia italiana una nitida precisione ed un ritmo insieme solenne ed intimo: ciт accadeva giа nei Sepolcri, ove la tematica solenne tendeva a far prevalere un senso austero e scultoreo; nelle Grazie l’endecasillabo mantiene tali aspetti, aggiungendo perт una maggiore fluiditа ed unendo al pregio visivo della chiarezza e della luminosa precisione descrittiva vibrazioni timbriche di intensa suggestione e la misteriosa melodia del suono.
Altri momenti significativi del primo inno sono la rappresentazione degli uomini primitivi e l’invenzione delle arti figurative. Il primo episodio ci rivela come, pur nella astratta contemplazione delle Grazie, la realtа storica sia distanziata ma non completamente dimenticata: il mirabile nel Foscolo (diversamente che nel Monti) non c'è mai semplice involucro estetico e non si allontana mai completamente dall’esperienza della vita.