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lunedì 7 marzo 2011

 
 La vicenda di Gengè Moscarda inizia da un dettaglio.
I. Mia moglie e il mio naso.
«Che fai?» mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
«Niente,» le risposi, «mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.»
Mia moglie sorrise e disse:
«Credevo ti guardassi da che parte ti pende.»
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
«Mi pende? A me? Il naso?»
E mia moglie, placidamente:
«Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra.»
Avevo ventotto anni e sempre hn allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m'era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato castigo.
Vide forse mia moglie molto piú addentro di me in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d'essere in tutto senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, cosí...
«Che altro?»
Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una piú sporgente dell'altra; e altri difetti......."
 L'ultimo romanzo di Pirandello, il romanzo "più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita" come affermò lo stesso autore. La filosofia pirandelliana trova qui il suo totale compimento attraverso il protagonista, il "pazzo" Vitangelo Moscarda, che assorbe in sé e supera tutti i personaggi presenti nelle opere precedenti dello scrittore siciliano. Moscarda, partendo dalla scoperta di avere il naso lievemente storto, si avventura in una serie di ricerche speculative ed esistenziali che lo porteranno prima alla rovina e poi alla successiva rinascita tramite l'autoesclusione dalla vita sociale e dalla visione comune degli uomini. La voce del narratore dà forma e concretezza vivente ad un monologo ricco di interrogazioni ed esclamazioni proprio come fosse un'opera teatrale ma in realtà si rivolge, al di là del palcoscenico, direttamente all'orecchio dell'ascoltatore e alla sua coscienza.
IL ROMANZO HA UNA DIVISIONE INTERNA?
Si, il romanzo presenta una divisione interna piuttosto articolata: si suddivide in otto libri che comprendono capitoli identificati, ciascuno con il proprio titolo. L’unità nominale dei loro argomenti e la significazione complessiva sono, in questo modo, garantiti. Ma se si guarda all’interno, il taglio e la misura dei singoli capitoli risultano sempre più rapidi e incisivi.
Il libro I è una sorta di preambolo necessario per lo sviluppo del romanzo intero. Il protagonista scopre infatti, grazie ad un’osservazione della moglie, che il naso gli pende verso destra, si rende così conto di non conoscere il suo stesso corpo, le cose che più intimamente gli appartenevano: il naso, le orecchie, le mani, le gambe.
Il libro II introduce un altro elemento di riflessione annunciato, ma non sviluppato nel precedente. Riguarda il soprannome impiegato da Dida per rivolgersi a Vitangelo: Gengè.
Su questo tono prosegue il terzo libro: continua il rifiuto del nome, questa volta tocca anche al cognome Moscarda. È chiamata in causa, poi, la storia della famiglia e la vita del padre, un banchiere che esercitava l’usura e della cui attività Vitangelo continua a godere.
Il libro IV parla della prima "pazzia" commessa dal protagonista: inizialmente sembra voler sfrattare uno scultore mancato ridotto in povertà, ma alla fine decide di donargli una casa sotto gli occhi di tutti, ma invece di ottenere riconoscenza, viene bollato come PAZZO.
Il libro V rincalza l’attenzione precedente di sottrarsi del tutto alla taccia di usuraio, ritirando nomi e soldi dalla banca gestita dagli amici. Siffatta decisione è maturata, però, soprattutto contro la moglie, sino al punto di afferrarla e sbatterla su una poltrona.
Il libro VI, che registra l’abbandono della casa da parte di Dida, un inutile dialogo tra Vitangelo e il suocero, la volontà del protagonista di laurearsi, dimostra l’impossibilità di liberarsi di Gengè.
Il libro VII contiene una sorta di intervallo romanzesco, dove Vitangelo è alle prese con un’amica della moglie: Anna Rosa, che gli rivela che i familiari vogliono interdirlo.
Il libro VIII conduce il protagonista là dove da tempo è diretto: un ospizio di mendiità, costruito per penitenza dei suoi peccati, dietro intervento ecclesiastico.

TIPOLOGIA TESTUALE?:
romanzo di carattere (filosofico - umoristico).
TRAMA:
Da uno specchio, superficie ambigua e inquietante, emerge un giorno per Vitangelo Moscarda, un volto di sé finora ignorato: un naso in pendenza verso destra. Questo avvenimento provoca in lui una profonda crisi che lo porta a scoprire che gli altri si fanno di lui un’immagine diversa da quella che egli si è creato di se stesso, scopre cioè di non essere "uno", come aveva creduto sino a quel momento, ma di essere "centomila", nel riflesso delle prospettive degli altri, e quindi "nessuno". Questa presa di coscienza fa saltare tutto il sistema di certezze e determina una crisi sconvolgente. Vitangelo ha orrore delle "forme" in cui lo chiudono gli altri e non vi si riconosce, ma anche orrore della solitudine in cui lo piomba lo scoprire di non essere "nessuno". Decide perciò di distruggere tutte le immagini che gli altri si fanno di lui, in particolare quella dell’usuraio" ( il padre infatti gli ha lasciato in eredità una banca), per cercare di essere "uno per tutti". Incomincia così a ribellarsi facendo cose che, agli occhi di chi gli sta attorno, appaiono incomprensibili. Ricorre così ad una serie di gesti folli, come regalare una casa a un vagabondo. Vuole vendere la banca di cui non si è mai occupato e che gli assicura una certa agiatezza economica, e quando rivela alla moglie e all’amico Quantorzo che vuole cancellare la nomea di usuraio, loro scoppiano a ridere senza ritegno. Così colpito nell’animo, già, fortemente contrastato, strattona la moglie ribellandosi a quella marionetta, di nome Gengè, di cui ella si era sempre compiaciuta. Le pazzie si intensificano: ferito gravemente da un’amica della moglie, colta da un raptus inspiegabile di follia, al fine di evitare lo scandalo cede tutti i suoi averi per fondare un ospizio per poveri, ed egli stesso vi si fa ricoverare, estraniandosi totalmente dalla vita sociale.
Proprio in questa scelta trova una sorta di guarigione dalle sue ossessioni, rinunciando definitivamente ad ogni identità e abbandonandosi pienamente al puro fluire della vita, rifiutandosi di fissarsi in alcuna "forma", rinascendo nuovo in ogni istante, vivendo tutto fuori di sé e identificandosi di volta in volta nelle cose che lo circondano, alberi, vento, nuvole. La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole tra lo stridio delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aeri. Pensare alla morte, pregare. C’è pure che ha ancora questo bisogni, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma ogni cosa fuori.
TEMPO:
fabula e intreccio sostanzialmente coincidono perché gli avvenimenti seguono l’ordine cronologico. Bisogna, però, sottolineare il fatto che nella prima parte del romanzo non vi è racconto, ma solo l’arrovellarsi ossessivo del protagonista, monologante, sui temi dell’identità fittizia, dell’inconsistenza della persona. Solo nella seconda parte il filo di un intreccio comincia a dipanarsi, ma anche qui l’organicità del racconto, la concatenazione logica e coerente delle cause e degli effetti, salta: i gesti inconsulti del protagonista sono la negazione di una logica comune, sono coerenti solo all’interno della sua follia, e così pure il gesto di Anna Rosa, l’amica della moglie che spara a Vitangelo, resta del tutto gratuito, immotivata, inspiegabile.
Da sottolineare, inoltre, la presenza di alcune digressioni ( il racconto della casa del padre, le corse in carrozza da ragazzo ), incisi filosofici ( nuvole e vento, l’uccellino, campagna e città), nonché anticipazioni, mia moglie, che non era stata mai mia moglie, ma la moglie di colui, si ritrovò subito, inorridita, come in braccio a un estraneo, a uno sconosciuto; e dichiarò di non potermi più amare, di non poter più convivere con me neanche un minuto e scappò via.
Sissignori, come vedrete, scappò via.
Non viene esplicitamente indicato nel testo quando avvengono le vicende, ma è plausibile pensare che il romanzo sia ambientato nei primi anni del novecento, lo possiamo dedurre dalle descrizioni degli ambienti, dei personaggi e dalle professioni esercitate. Non si parla di avvenimenti storici di rilievo tali da farci dedurre il contesto storico del romanzo, che appare così in escono piano. Non sappiamo neppure quanto durano le vicende, presumibilmente qualche mese.
Il tempo della storia è sicuramente minore rispetto al tempo del racconto, non vi sono infatti sommari, ma solo pause, descrittive e dialogate, e analisi soprattutto filosofiche. Il ritmo è lento, in modo particolare nella prima parte del racconto.
Alla luce di quanto detto, emerge, in primo luogo, l’esiguità dei fatti, estremamente pochi e l’assenza di riferimenti temporali, questo perché per Piarandello non sono importanti gli avvenimenti quanto le considerazioni che si possono trarre. Lo stesso vale per l’aspetto temporale: l’autore ha tentato di creare un romanzo "fuori dal tempo" che potesse cioè adattarsi a qualsiasi epoca, in effetti gli argomenti trattati sono moderni, riguardano anche noi stessi, provocando in questo modo, un vero e proprio annullamento del tempo storico.
SPAZIO:
gli avvenimenti si svolgono nella nobile città di Richieri, inventata e che potrebbe rifarsi tanto ad Agrigento quanto a Palermo, e si articolano in ambienti sia interni che esterni: la casa del protagonista, la banca, le vie della città, la Badia Grande ecc. ecc. di questi luoghi l’autore ci fornisce particolari descrizioni: e pareva un lago la piazza con tutto quel brillio di stelle un allegro sprazzo di sole, e nella corsa, Dio che guazzabuglio di cose, la vasca, quel chiosco da giornali, il tram che infilava lo scambio e strideva spietatamente alla girata, quel cane che scappava…- Quella Badia, già castello feudale dei Chiaramonte, con quel portone basso tutto tarlato, e la vasta corte con la cisterna in mezzo, e quello scalone consunto, cupo e rintronante, che aveva il rigido delle grotte, e quel largo e lungo corridoio con tanti usci da una parte e dall’altra e i mattoni rossi del pavimento avvallato lustravano alla luce del finestrone in fondo aperto al silenzio del cielo, tante vicende di casi e di aspetti di vita aveva accolto in sé…
l’ambiente che prevale è cittadino, e la folla è importante perché alimenta le dicerie sulla pazzia di Vitangelo, che si sente continuamente osservato e giudicato da tutti come un usuraio. I luoghi sono presentati dal punto di vista del protagonista e nelle sue descrizioni prevalgono sostanzialmente elementi visivi.
PERSONAGGI:
il protagonista assoluto di questo romanzo è Vitangelo Moscarda, di lui l’autore ci offre anche una descrizione fisica in diversi punti della narrazione, e in particolare mentre analizza i suoi difetti fisici, avevo ventotto anni e sempre fino allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona- le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una più sporgente dell’altra; e altri difetti. Ancora più interessante è la descrizione che Vitangelo si fa guardandosi allo specchio, gli guardai i capelli rossigni; la fronte immobile, dura e pallida; quelle sopracciglia ad accento circonflesso; gli occhi verdastri, quasi forati qua e là nella cornea da macchioline giallognole; attoniti, senza sguardo; quel naso che pendeva verso destra, ma di bel taglio aquilino; i baffi rossicci che nascondevano la bocca; il mento solido, un po’ rilevato. Ma non credo che l’autore abbia voluto soffermarsi particolarmente sul ritratto fisico del protagonista anche perché nella descrizione emergono tratti irrilevanti dell’aspetto, anche se la "crisi" di Vitangelo scoppia con la presa di coscienza di un difetto fisico, di quali fatti volete parlare? Del fatto che io sono nato, anno tale, mese tale, giorno tale, nella nobile città di Richieri, nella casa in via tale, numero tale, del signor Tal dei Tali e dalla signora Tal dei Tali…alto di statura un metro e sessantotto; rosso di pelo, ecc.ecc ? è la sua mente che ci interessa e che viene accuratamente scrutata e vediamo che il protagonista si arrovella, perde il sonno pur di trovare una risposta ai suoi quesiti, per vedere in definitiva più chiaro. Non si limita a confessare di non sapere chi sia, ma afferma deliberatamente di non voler più essere nessuno, di rifiutare totalmente ogni identità individuale. Bisogna per Vitangelo vivere di attimo in attimo, in perenne mutazione, e ciò è una condizione esaltante, gioiosa. Ma per arrivare a questa conclusione ha dovuto affrontare la società e distruggere quelle immagini che la gente si era creata di lui, non mi sono più guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto...nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri.
Spesso ho come avuto la sensazione che Vitangelo non fosse un vero personaggio, ma una sorta di voce della coscienza che ha il compito di redarguirci e di farci capire la realtà delle cose e, anche in quest’ambito, non risultano importanti le vicende in cui il protagonista è coinvolto quanto ciò che ci dice e ciò che vuole comunicare.
Gli altri personaggi che compaiono nel racconto possono essere così suddivisi:
quelli che lo considerano Gengè:
·         La moglie Dida, innamorata di quella marionetta che reputava sciocca, timida, quel suo Gengè esisteva, mentre io per lei non esistevo affatto, non ero mai esistito… quando il protagonista la strattona, incredula che quell’uomo possa essere il suo Gengè, lo abbandona. Vitangelo ne era comunque innamorato.
·         Il padre di Dida, molto curato, non pur nei panni, anche nell’acconciatura dei capelli e dei baffi fino all’ultimo pelo; biondo, biondo; e d’aspetto non dirò volgare, ma comune ad ogni modo. Anche per lui Vitangelo era uno stupidissimo uomo sempre soddisfatto di sé
·         Anna Rosa, un’amica di Dida, presente nella parte più romanzata del racconto, orfana di padre e di madre, abitava con una vecchia zia in quella casa che pare schiacciata dalle mura altissime della Badia Grande. Sembra pazza quando si ferisce incidentalmente e poi ferisce lo stesso Vitangelo.
Quelli che lo considerano usuraio:
·         Firbo e Quintorzo, gli amici fidati di Vitangelo così come li definisce lui, voluto bene da tutti quei consoci, da Quantorzo, come figliuolo, da Firbo, come un fratello, i quali tutti sapevano che con me era inutile parlare di affari e che bastava di tanto in tanto chiamarmi a firmare… infatti questi due soci del protagonista non avevano di lui alcuna considerazione, gestivano gli affari non curanti dell’opinione del padrone della banca: Vitangelo che di fatto era per tutti un usuraio. Quando Vitangelo assume un atteggiamenti inconsueto e commette delle "pazzie", i due cari amici del protagonista non si preoccupano di scoprirne la causa, ma si limitano a trovare la soluzione migliore per non vedere danneggiati i loro interessi. Risultano così infidi, privi di compassione, interessati solo al denaro.
·         La folla, le persone del paese non sono dei veri personaggi, ma sono importanti perché concorrono ad aumentare la crisi del protagonista, che si vede da tutti bollato come usuraio.
·         Monsignor Partanna, era stato eletto vescovo per istanze e mali uffici di potenti prelati a Roma. Don Antonio Sclepis, era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se tutta l’aria e la luce dell’altura dove viveva lo avessero non solo scolorito ma anche rarefatto.
STILE:
il romanzo assume la forma del soliloquio, trasformabile o meno in un dialogo con un pubblico chiamato all’ascolto della voce narrante, e voluto presente, quasi come prima incarnazione di un pubblico di lettori. I quali a teatro ovviamente non esistono; ed anche nel romanzo dovrebbero per Pirandello, uscire dalla loro condizione passivi ed essere coinvolti da chi li provoca.
Per quanto riguarda la sintassi, Piandello fa di tutto perché il soliloquio di Vitangelo Moscarda perda il timbro di protesta e di denuncia in nome dei valori umani genericamente condivisi. Deve risuonare, piuttosto, come pronuncia di una voce singola, socialmente, e prima ancora familiarmente emarginata. Comunque Pirandello non si serve di toni accesi e disperati, come invece aveva fatto nel Fu Mattia Pascal. Frequenti sono le frasi esclamative nelle quali si esprime tutto il desiderio di fuga dal mondo e di annullamento della natura che anima Vitangelo Moscarda, un mio dunque che non era per me!, tutto quel corpo lì che per me era niente; eccolo: niente!
Il lessico è ricco di aggettivi, molte sono le affermazioni incidentali, le interrogative retoriche, forme verbali esortative o imperative, ma in attesa di che, lui? Di vedermi?no. egli poteva essere veduto, ma non vedermi,- la campagna! Che altra pace, eh? Vi sentite sciogliere. Si; ma se mi sapete dire dov’è? Dico la pace. No, non temete, non temete! Vi sembra propriamente che ci sia pace qua?. Comunque tutte queste modalità di parlare, in Uno nessuno e centomila progressivamente si allentano e si scaricano.
Interessante è il passo nel racconto in cui Pirandello arriva a chiedere scusa ai suoi lettori per gli ammiccamenti cui è costretto a ricorrere, non potendo sapere come loro appare in quel momento, scusatemi, tutti questi ammiccamenti; ma ho bisogno di ammiccare, d’ammiccare così perché, non potendo sapere come v’appaio in questo momento, tiro anche, con questi ammiccamenti, a indovinare.
Pirandello ha utilizzato un linguaggio originale, diretto, in grado di comunicare al lettore l’angoscia più o meno esplicita del personaggio senza filtri ipocriti e fuorvianti. Pirandello ha dato luogo ad uno sperimentalismo straordinario grazie ad un lessico raffinato e letterato, elementi dialettali e gergali, termini specialistici, espressioni trite e banali, il discorso indiretto libero e primo fra tutti il dialogo, usato con grandissima frequenza e segnalatore di una qualità scenica della scrittura pirandelliana che si manifesta anche con l’immediatezza visiva dei gesti e delle parole.
Ne risulta una lingua parlata, intessuta di movimenti, drammatica, che riflette la propensione di Pirandello perla scrittura teatrale: una scrittura che è il risultato di un sapiente impasto di parole, silenzi, gesti, espressioni e rapporti spaziali.
TEMI:
ALCUNE INFORMAZIONI SULLA FORMAZIONE DEL ROMANZO:
Uno, nessuno, centomila, l’ultimo romanzo di Pirandello, fu pubblicato a puntate sul settimanale "La fiera letteraria" nel 1926. L’idea del romanzo era già nella mente di Pirandello nel 1910, come si capisce dalla lettera a Botempelli. La previsione di Pirandello non si realizzò e il romanzo non comparve nel 1913. Un testo che anticipa la stampa del romanzo appare nel gennaio del 1915, il lavoro di scrittura procederà poi fra alti e bassi negli anni successivi: " sto ora ultimando un romanzo che avrebbe dovuto uscire prima di tutte le mie commedie. In questo romanzo c’è la sintesi completa di tutto ciò che ha fatto e la sorgente di quello che farò", questa una delle dichiarazioni di Pirandello. Il libro appare quasi ultimato nel 1922, ma vedrà la luce solo quattro anni più tardi.
Un lungo processo che abbraccia trasversalmente non solo la vita, ma l’opera stessa di Pirandello, in questo romanzo si ritrovano infatti le principali tematiche trattate dallo stesso:
1.      La presa di coscienza della prigionia delle "forme":
il problema dell’identità era già presente nel Fu Mattia Pascal e viene affrontato da Vitangelo Moscarda che parla in modo retrospettivo: il protagonista conclusosi un ciclo della sua vita, si volge indietro a rievocarlo. Dopo la scoperta che il naso gli pende da una parte egli, che non se ne era ami avveduto, scopre così che l’immagine che si è creato di sé non corrisponde a quella che gli altri hanno di lui. Si rende conto del fatto che esistono infiniti "Moscarda", l’uno diverso dall’altro, a seconda della visione delle tante persone che lo conoscono, in primo luogo la moglie. In lui nasce pertanto un vero orrore per la prigionia delle "forme" in cui gli altri lo costringono; ma scopre anche di non essere "nessuno" per sé, e questo genera in lui un’altra forma di orrore, un senso angoscioso di assoluta solitudine.
2.      La rivolta e la distruzione delle forme: la pazzia:
la pazzia è un modo caro agli eroi pirandelliani per scardinare il meccanismo delle forme, delle convezioni e degli istituti sociali che imprigionano la vita nel suo fluire. Viene quindi vista positivamente.
3.      Sconfitta e guarigione:
Moscarda ha cercato, con le sue follie, di ribellarsi al sistema ferreo delle convenzioni sociali, di scardinarlo, ma è rimasto sconfitto. E tuttavia proprio in questa sconfitta trova una

forma di guarigione dalle angosce che lo ossessionavano, alienarsi da se stessi, rifiutare il proprio nome, per abbandonarsi gioiosamente al fluire della vita, morendo ad ogni attimo e rinascendo nuovo e senza ricordi, per identificarsi con tutte le cose fuori.
4.      L’umorismo:
esso si basa sulla finzione, per cui l’individuo, per non essere emarginato dai suoi simili, deve ricorrere a continue menzogne e ipocrisie, deve insomma indossare una maschera che solo la riflessione umoristica permette di individuare e denunciare. La consapevolezza dell’inganno del vivere conduce inevitabilmente ad una rottura dei valori borghesi tradizionali e soprattutto a una visione lacerata e frammentaria della creatura umana e a nessuna identità profonda, che si rispecchia in un’arte disorganica e trasgressiva, deformata e critica.
5.      L’identificazione uomo - natura:
nella parte finale del racconto tra uomo e natura si crea un’identificazione profonda, quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola, quasi mistica, è proposta come modello per ogni uomo che sappia rompere il meccanismo delle convenzioni sociali.
6.      Lo specchio:
ma quando sta davanti allo specchio, nell’attimo che si rimira, lei non è più viva, perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita per vedersi. Lei s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo e non può mai vedere veramente se stessa…lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive… non si può vivere davanti a uno specchio. Vitangelo si è reso conto che nessuno di noi può vedersi e anche se uno riuscisse a conoscersi, di fatto non potrebbe mai sapere che cosa pensano gli altri.



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