Siamo su Dienneti

mercoledì 13 maggio 2009

Illustrazioni inedite dedicate all’Inferno di Dante

Realizzate
da Sonia Marino , Alessia Rapisardi, Massimiliano Pappalardo
con la partecipazione dei compagni




martedì 12 maggio 2009

LABORATORIO DI SCRITTURA CANTO XXVI


FEDE BONANNO

Nel XXVI canto, ci troviamo nell'ottava bolgia dell'ottavo cerchio dell'Inferno.Qui troviamo come dannati i fraudolenti,si tratta degli orditori di frode ossia condottieri e politici che non agirono con le armi e con il coraggio personale ma con l'acutezza spregiudicata dell'ingegno. 1.Le tre principali similitudini presenti in questo canto le troviamo nei versi: •25-33 Per descrivere la bolgia dei fraudolenti,il poeta si serve di due similitudini: nella prima, si ha una realtà quotidiana, di un contadino che da un poggio con meraviglia osserva le lucciole volteggiare su un campo durante una serata estiva, così Dante vede le punte delle fiamme agitarsi nella bolgia; •34-42 nella seconda sono confrontate le fiamme che nascondono i fraudolenti con il profeta Elia,nascosto da una nuvoletta di fuoco nel momento in cui è salito in cielo. In questa seconda similitudine troviamo anche riferimenti alla Bibbia; •49-54 Dante trova davanti a se una fiamma con due punte divise all'estremità.All'interno vi sono i due fratelli Eteocle e Polinice che cercarono di regnare a turno su Tebe,ma vittime di una maledizione paterna, vorranno l'egemonia l'uno sull'altro. E così alla fine per cercare di conquistare la città si uccisero a vicenda.Le loro salme furono poste sul rogo,ma le fiamme di separarono, questo simboleggia l'odio che vi era tra di loro. 2.Ulisse incorse nel suo "folle volo", ovvero nel suo straordinario viaggio superando i limiti imposti all'uomo da Dio, e lo compì autonomamente senza l'appoggio di divinità; Dante come esso,compie un viaggio straordinario, salvifico per l'umanità, però per volontà divina.

LABORATORIO DI SCRITTURA CANTO XIII


GIADA GIUFFRIDA

1) Pier della Vigna fu fedele cardinale consigliere di Federico II di Svevia e uno degli autori di spicco della scuola poetica siciliana. Perse la vita non per la sua operosa fedeltà all’impero, ma perché nel suo lavoro si attirò l’odio e l’invidia dei cortigiani, e poi le accuse false ma credute vere dall’imperatore lo portarono alla condanna e alla morte per suicidio. Dopo aver maledetto i suoi nemici e difeso l’onore del suo re, chiede a Dante di raccontare la verità fra i vivi e di difendere il suo buon nome.
2) Lo stile di questo canto è particolarmente teso ed espressivo. Possiamo distinguere due registri. Nel primo ci sono una serie di sostantivi e aggettivi che esprimono l’idea di una natura ridotta a materia aspra e spiacevole (“rami…nodosi e ‘nvolti”, “stecchi con tosco”, “aspri sterpi…folti”, “fiere selvagge”, “orribil sabbione”, “bronchi”, “pruno”, “sterpi”, “stizzo”, “scheggia rotta”, “tronco”). Un secondo registro è quello dell’elaborazione retorica: l’iperbato (v.15), la similitudine (v.40), la perifrasi (v. 25).

venerdì 8 maggio 2009

CANTO XXVI INFERNO


Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,

che per mare e per terra batti l’ali,

3 e per lo ’nferno tuo nome si spande!

Tra li ladron trovai cinque cotali

tuoi cittadini onde mi ven vergogna,

6 e tu in grande orranza non ne sali.

Ma se presso al mattin del ver si sogna,

tu sentirai, di qua da picciol tempo,

9 di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.

E se già fosse, non saria per tempo.

Così foss’ei, da che pur esser dee!

12 ché più mi graverà, com’ più m’attempo.

Noi ci partimmo, e su per le scalee

che n’avean fatto iborni a scender pria,

15 rimontò ’l duca mio e trasse mee;

e proseguendo la solinga via,

tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio

18 lo piè sanza la man non si spedia.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio

quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,

21 e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,

perché non corra che virtù nol guidi;

sì che, se stella bona o miglior cosa

24 m’ha dato ’l ben, ch’io stesso nol m’invidi.

Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,

nel tempo che colui che ’l mondo schiara

27 la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede a la zanzara,

vede lucciole giù per la vallea,

30 forse colà dov’e’ vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea

l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi

33 tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.

E qual colui che si vengiò con li orsi

vide ’l carro d’Elia al dipartire,

36 quando i cavalli al cielo erti levorsi,

che nol potea sì con li occhi seguire,

ch’el vedesse altro che la fiamma sola,

39 sì come nuvoletta, in sù salire:

tal si move ciascuna per la gola

del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,

42 e ogne fiamma un peccatore invola.

Io stava sovra ’l ponte a veder surto,

sì che s’io non avessi un ronchion preso,

45 caduto sarei giù sanz’esser urto.

E ’l duca, che mi vide tanto atteso,

disse: "Dentro dai fuochi son li spirti;

48 catun si fascia di quel ch’elli è inceso".

"Maestro mio", rispuos’io, "per udirti

son io più certo; ma già m’era avviso

51 che così fosse, e già voleva dirti:

chi è ’n quel foco che vien sì diviso

di sopra, che par surger de la pira

54 dov’Eteòcle col fratel fu miso?".

Rispuose a me: "Là dentro si martira

Ulisse e Dïomede, e così insieme

57 a la vendetta vanno come a l’ira;

e dentro da la lor fiamma si geme

l’agguato del caval che fé la porta

60 onde uscì de’ Romani il gentil seme.

Piangevisi entro l’arte per che, morta,

Deïdamìa ancor si duol d’Achille,

63 e del Palladio pena vi si porta".

"S’ei posson dentro da quelle faville

parlar", diss’io, "maestro, assai ten priego

66 e ripriego, che ’l priego vaglia mille,

che non mi facci de l’attender niego

fin che la fiamma cornuta qua vegna;

69 vedi che del disio ver’ lei mi piego!".

Ed elli a me: "La tua preghiera è degna

di molta loda, e io però l’accetto;

72 ma fa che la tua lingua si sostegna.

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto

ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,

75 perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto".

Poi che la fiamma fu venuta quivi

dove parve al mio duca tempo e loco,

78 in questa forma lui parlare audivi:

"O voi che siete due dentro ad un foco,

s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,

81 s’io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi,

non vi movete; ma l’un di voi dica

84 dove, per lui, perduto a morir gissi".

Lo maggior corno de la fiamma antica

cominciò a crollarsi mormorando,

87 pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,

come fosse la lingua che parlasse,

90 gittò voce di fuori, e disse: "Quando

mi diparti’ da Circe, che sottrasse

me più d’un anno là presso a Gaeta,

93 prima che sì Enëa la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pieta

del vecchio padre, né ’l debito amore

96 lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore

ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto

99 e de li vizi umani e del valore;

ma misi me per l’alto mare aperto

sol con un legno e con quella compagna

102 picciola da la qual non fui diserto.

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,

fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,

105 e l’altre che quel mare intorno bagna.

Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi

quando venimmo a quella foce stretta

108 dov’Ercule segnò li suoi riguardi

acciò che l’uom più oltre non si metta;

da la man destra mi lasciai Sibilia,

111 da l’altra già m’avea lasciata Setta.

"O frati", dissi, "che per cento milia

perigli siete giunti a l’occidente,

114 a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente

non vogliate negar l’esperïenza,

117 di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

120 ma per seguir virtute e canoscenza".

Li miei compagni fec’io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino,

123 che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,

de’ remi facemmo ali al folle volo,

126 sempre acquistando dal lato mancino.

Tutte le stelle già de l’altro polo

vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,

129 che non surgëa fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante casso

lo lume era di sotto da la luna,

132 poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna

per la distanza, e parvemi alta tanto

135 quanto veduta non avëa alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;

ché de la nova terra un turbo nacque

138 e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;

a la quarta levar la poppa in suso

141 e la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso".

Il fascino di Ulisse

Proprio in questa cantica vi è una delle terzine più famose di tutto l'Inferno e forse di tutta la Commedia. Sono parole ("orazion picciola") che Dante fa dire a Ulisse quando questi voleva convincere i suoi compagni ad avventurarsi verso l'oceano: "Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza"(XXVI, 118-120). E' grande qui Dante quando porta il lettore a chiedersi come definire un uomo che proprio mentre afferma tali grandi parole, nega la vera virtù e la conoscenza utile a vivere un'esistenza davvero umana?

Dante sa bene d'aver subito in gioventù il fascino della personalità dell'eroe omerico, esattamente come tutti gli intellettuali che l'avevano preceduto, da Orazio a Seneca, a Cicerone, che avevano sottolineato di Ulisse il patrimonio di conoscenze e di saggezza conquistato nel suo avventuroso viaggio e ne avevano fatto il simbolo della virtù (humanitas) intesa come profondo ed insaziabile desiderio dell'uomo della conoscenza, anche se per questo egli deve ritardare il nostos, cioè il ritorno in patria.

Orazio definisce Ulisse “modello di virtù e di sapienza” (“conobbe i costumi degli uomini... e soffrì molte asperità nel vasto mare”, Epistole). Seneca accosta Ulisse ed Ercole celebrandoli come uomini “vincitori di ogni genere di paure”(Costanza del sapiente). Soprattutto Cicerone, commentando l'episodio dell'incontro di Ulisse con le Sirene dice dell'eroe: “le Sirene gli promettono la conoscenza: non deve quindi meravigliare se ad Ulisse, questa apparisse più cara della patria, tanto era desideroso di conoscenza” (Sul sommo bene e sul sommo mal).

Il motivo di fondo per cui Dante mette Ulisse all'Inferno non è semplicemente per il suo ateismo o per il fatto che avesse una concezione del tutto formale della religiosità, ma per il fatto che nel proprio ateismo egli non tenesse in alcuna considerazione gli umani sentimenti.

Non dobbiamo dimenticare che Dante, pur non essendo un cattolico integralista, non era neppure un laico come Marsilio da Padova (1275 - 1343), suo conterraneo. Egli è consapevole di non poter condannare all'Inferno un uomo che tentò di attraversare lo stretto di Gibilterra, ma il dovere "religioso" gli impone di doverlo fare, in quanto l'Ulisse ateo mandò a morte i suoi compagni. E così per le altre colpe.

Peraltro, il fatto che qui Dante rispetti tutte le consegne di Virgilio è la dimostrazione ch'egli aveva nei confronti della tradizione un atteggiamento più ossequioso di quello di Ulisse.

La fine

Dante, che pur non ha chiesto nulla all'eroe greco, gli fa raccontare un viaggio che neppure i redattori dell'Odissea ebbero mai il coraggio di narrare, e che influenzerà buona parte della letteratura a lui successiva. Egli infatti fa premettere a Ulisse due cose che tutto fanno pensare meno che all'idea di dover condannare all'Inferno un navigatore così coraggioso ancorché ateo: l'"orazion picciola", di cui s'è detto, e la constatazione del limite fisico dei marinai, i quali, a conti fatti, non riuscirono nell'impresa, secondo l'opinione di Ulisse, soltanto perché "già vecchi e tardi (nei movimenti)"(v. 106). Anche se qui Dante si serve di questa dichiarazione per sostenere che il folle viaggio fu intrapreso in piena consapevolezza.

Che Dante concluda in maniera romanzata (alla Moby Dick, per intenderci), senza proferire parola alcuna di commento, e soprattutto senza fare alcun cenno ai delitti e alle nefandezze ben più gravi di cui si macchiò Ulisse, è indicativo del fatto che tra lui e Omero s'era insinuata una sorta di "attrazione fatale", ereditata dagli intellettuali greci e latini e che verrà tramandata a tutti gli intellettuali successivi, sino alla stroncatura senza soluzione di continuità del Pascoli.

Ulisse è l'unico personaggio importante della Commedia che non appartenga alla storia contemporanea di Dante, facendo parte del mito: la sua funzione è dunque soprattutto simbolica, e corrisponde narrativamente, con coerenza stilistica e retorica, alla metafora del mare, con le sue acque invitanti e infide, che non solo in Dante ma in tutta la tradizione culturale del Medioevo, rappresenta la conoscenza, il sapere e la ricchezza: attraversarlo o comunque tentare di solcarlo è quindi un tentativo coraggioso di superare i limiti delle conoscenze precedenti e delle precedenti civiltà agricolo-pastorali.

E' un'impresa che, nell'immaginario medievale, può essere facilitata dall’approvazione divina, come nel caso appunto di Dante, che apprende i segreti delle cose attraverso il viaggio nell’aldilà; oppure, come nel caso di Ulisse, condannata in partenza al fallimento, proprio perché si pone come sfida alla virtù divina.

Ulisse è una specie di specchio negativo di Dante. Dal punto di vista della conoscenza, entrambi sono degli eroi, degli scopritori. Tuttavia Dante è, per così dire, un esploratore approvato da dio, mentre Ulisse è un ribelle, un temerario che osa imporre la propria volontà agli dèi. La presunzione umana rappresenta un inconcepibile sovvertimento dell'ordine dell'universo, e come tale è una forma di "follia". Infatti, l'aggettivo folle, come segnale preciso di questa volontà assurda per chi è sostenuto dalla fede e dalla grazia, compare al v. 125, a definire la natura insana dell'impresa di Ulisse.

L'autore, dunque, sente vicina alla propria l'esperienza di Ulisse (che può rappresentare quella dei filosofi laici che - come lo stesso Dante giovane - si lasciarono tentare da una conoscenza che fosse dei tutto indipendente dal valore della fede religiosa). Ma Dante credette di salvarsi in tempo dal fallimento, tornando alla fede. In questo senso, il personaggio di Ulisse lo rispecchia, ma solo per gli aspetti negativi che lo segnarono in passato e che al tempo in cui scrive la Commedia egli ha ormai superato.

Anonimo fiorentino, Il naufragio della nave di Ulisse, 1390-1400 ca., Biblioteca Apostolica Vaticana, MS lat. 4776, Città del Vaticano

Da un lato quindi Dante deve condannare, formalmente, l'eroe greco per empietà e irresponsabilità, dall'altro però, nascostamente, non può fare a meno di elogiarlo, per aver saputo di molto anticipare i tempi, al punto che dedica al racconto del tragico naufragio ben 37 versi su 142. Da Contro Ulisse



SPUNTI PER LA RIFLESSIONE


1.ANALIZZATE LE TRE PRINCIPALI SIMILITUDINI DELLAPRIMA PARTE DEL CANTO(VILLANO,ELISEO,ETEOCLE E POLINICE),DISTINGUENDONE GLI AMBITI DI PROVENIENZA E INDIVIDUANDONE LA FUNZIONE.


2.SPIEGATE L'ERRORE MORALE IN CUI INCORRE ULISSE CON IL SUO"FOLLE VOLO".

domenica 3 maggio 2009

Canto XIII INFERNO

CANTO XIII

Non era ancor di là Nesso arrivato,

quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.

Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco:

non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.

Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.

Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.

E 'l buon maestro «Prima che più entre,
sappi che se' nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre

che tu verrai ne l'orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».

Io sentia d'ogne parte trarre guai,
e non vedea persona che 'l facesse;
per ch'io tutto smarrito m'arrestai.

Cred'io ch'ei credette ch'io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi
da gente che per noi si nascondesse.

Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d'una d'este piante,
li pensier c'hai si faran tutti monchi».

Allor porsi la mano un poco avante,
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb'esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».

Come d'un stizzo verde ch'arso sia
da l'un de'capi, che da l'altro geme
e cigola per vento che va via,

sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond'io lasciai la cima
cadere, e stetti come l'uom che teme.

«S'elli avesse potuto creder prima»,
rispuose 'l savio mio, «anima lesa,
ciò c'ha veduto pur con la mia rima,

non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.

Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece
d'alcun'ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».

E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi,
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
perch'io un poco a ragionar m'inveschi.

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,

che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi:
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.

La meretrice che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,

infiammò contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,
che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.

L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.

Per le nove radici d'esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d'onor sì degno.

E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che 'nvidia le diede».

Un poco attese, e poi «Da ch'el si tace»,
disse 'l poeta a me, «non perder l'ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».

Ond'io a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch'a me satisfaccia;
ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora».

Perciò ricominciò: «Se l'om ti faccia
liberamente ciò che 'l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia

di dirne come l'anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s'alcuna mai di tai membra si spiega».

Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.

Quando si parte l'anima feroce
dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.

Cade in la selva, e non l'è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.

Surge in vermena e in pianta silvestra:
l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.

Come l'altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch'alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie.

Qui le trascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta».

Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch'altro ne volesse dire,
quando noi fummo d'un romor sorpresi,

similemente a colui che venire
sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
ch'ode le bestie, e le frasche stormire.

Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogni rosta.

Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte

le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d'un cespuglio fece un groppo.

Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch'uscisser di catena.

In quel che s'appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.

Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea,
per le rotture sanguinenti in vano.

«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che t'è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».

Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo,
disse «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».

Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c'ha le mie fronde sì da me disgiunte,

raccoglietele al piè del tristo cesto.
I' fui de la città che nel Batista
mutò il primo padrone; ond'ei per questo

sempre con l'arte sua la farà trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,

que' cittadin che poi la rifondarno
sovra 'l cener che d'Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.

Io fei gibbetto a me de le mie case».


Spunti per la riflessione


1.Riassumi la vicenda di Pier delle Vigna collocandola nel contesto storico-geografico di appartenenza (vv.58-78).

2.Il linguaggio del cantovuole esprimere i concetti di dolore ,di scissione e di stranezza che informano gli episodi e la condizione delle anima-piante:ci sono quindi parole che rimandano alla poesia dell'orrore.Indicate i versi e le figure retoriche che configurano un vero e proprio "linguaggio arboreo".